RlTUALIZZAZIONE DEL PROGRESSO

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Il laureato è stato preparato dalla scuola per prestare servizio tra i ricchi del mondo. Quali che siano le sue simpatie verbali per il Terzo Mondo, ogni laureato americano ha avuto un’istruzione che è costata circa cinque volte di più di quello che è il reddito medio, in tutta la vita, di mezza umanità. Uno studente dell’America latina è ammesso in questa sceltissima confraternita solo dopo che per istruirlo sia stato speso in denaro pubblico almeno 350 volte di più che per i suoi connazionali di medio reddito. Tranne rarissime eccezioni, il laureato di un paese povero si sente più a suo agio con i colleghi europei o nordamericani che fra i compatrioti non scolarizzati, e in generale tutti gli studenti sono condizionati dal sistema universitario a trovarsi bene soltanto in compagnia di altri consumatori dei prodotti della macchina didattica.

L’università moderna concede il privilegio del dissenso a chi è già stato esaminato e catalogato come persona potenzialmente in grado di far quattrini o di occupare posizioni di potere. Nessuno che non sia stato riconosciuto ufficialmente capace di tanto può ricevere fondi pubblici per istruirsi disinteressatamente nel tempo libero o avere il diritto di istruire altri. La scuola seleziona a ogni livello coloro che, nelle fasi precedenti del gioco, abbiano dato prova di non rappresentare un rischio eccessivo per l’ordine costituito. L’università, avendo il monopolio sia delle risorse per l’istruzione sia dell’investitura per i ruoli sociali, coopta anche l’innovatore e il potenziale dissenziente. Una laurea lascia sempre l’indelebile segno del proprio prezzo sullo stato di servizio del suo utente. I laureati si trovano bene soltanto in un mondo che metta in evidenza il loro prezzo, dando loro in tal modo il potere di definire il livello al quale la società può aspirare. In ogni paese è la quantità dei loro consumi a indicare il modello da raggiungere; tutti gli altri, se vogliono essere persone civili sul lavoro o fuori, si porranno come meta lo stile di vita di chi possiede la laurea.

L’università finisce dunque per imporre modelli di consumo sul lavoro e a casa, e ciò avviene in ogni parte del mondo, sotto qualunque regime politico. Meno laureati ci sono in un paese, più le loro esigenze di persone colte vengono prese a modello dal resto della popolazione. In Russia, in Cina e in Algeria, il divario tra i consumi del laureato e quelli del cittadino medio è ancor maggiore che negli Stati Uniti. L’automobile, i viaggi in aereo e il registratore sono segni di distinzione più visibili in un paese socialista, dove è possibile procurarseli solo con un titolo di studio e non semplicemente con i soldi.

Questo potere dell’università di stabilire obiettivi di consumo è un fatto nuovo. In molti paesi data soltanto dagli anni sessanta, cioè da quando ha cominciato a diffondersi l’illusione di una uguaglianza di accesso all’istruzione pubblica. Prima d’allora l’università proteggeva la libertà di parola di un individuo, ma non trasformava automaticamente in ricchezza il suo sapere. Nel Medio Evo essere uno “scolare” significava anche essere un povero, o addirittura un mendico. In virtù della sua vocazione, lo scolare imparava il latino e diventava un emarginato, oggetto di disprezzo quanto di stima per li contadino come per il principe, per il borghese come per li prete. Per farsi strada nella società doveva anzitutto penetrarvi. arruolandosi in qualche organizzazione pubblica, preferibilmente la chiesa. L’antica università era una zona franca destinata all’elaborazione e al dibattito di idee, sia vecchie che nuove. Maestri e studenti vi si riunivano per leggere i testi di altri maestri morti da tempo, e le parole vive del passato schiudevano nuove prospettive sugli errori del presente. L’università era dunque una comunità di indagine intellettuale e di endemica irrequietezza.

Nella multiversity moderna, questa comunità è stata emarginata e ridotta a riunirsi in un appartamento nello studio di un professore o nella residenza del cappellano. Il fine strutturale dell’università moderna ha poco a che vedere con l’indagine tradizionale. Da Gutenberg in poi, il dibattito specializzato, critico, è passato in genere dalla “cattedra” alla stampa. L’università moderna ha rinunciato al compito di fornire una semplice cornice per incontri insieme autonomi e anarchici focalizzati ma nello stesso tempo ribollenti e non pianificati, preferendo invece gestire il processo mediante il quale si producono la cosiddetta ricerca e la cosiddetta istruzione.

A partire dallo Sputnik, l’università americana ha soprattutto cercato di ristabilire un equilibrio numerico con i laureati sovietici. Oggi i tedeschi stanno rinunciando alle loro tradizioni accademiche e costruiscono dei campus per mettersi alla pari con gli americani. Nel decennio in corso intendono aumentare da 14 a 59 miliardi di marchi gli stanziamenti per la scuola elementare e media e triplicare la spesa per l’istruzione superiore. I francesi si propongono per il 1980 di portare al 10 per cento del loro prodotto nazionale lordo la somma destinata alle scuole, e la Fondazione Ford preme perché i paesi poveri dell’America latina portino la spesa per ogni laureato “che si rispetti” a livelli il più possibile vicini a quelli nordamericani. Lo studente vede nei propri studi l’investimento finanziariamente più redditizio, mentre le nazioni li considerano un fattore chiave del loro sviluppo.

Per la maggioranza che cerca soprattutto una laurea, l’università non ha perso il proprio prestigio, ma dal 1968 non ha fatto che perdere credito fra coloro che in essa veramente credevano. Gli studenti si rifiutano di prepararsi per la guerra, l’inquinamento e la perpetuazione dei pregiudizi. E gli insegnanti li aiutano a contestare la legittimità del governo, la sua politica estera, il suo sistema educativo e la stessa american way of life. Non pochi rifiutano la laurea e scelgono di vivere in una controcultura, fuori della società ufficiale, seguendo le orme di quegli hippies e dropouts che furono i Fraticelli medievali e gli Alumbrados della Riforma. Altri, rendendosi conto che la scuola detiene il monopolio delle risorse necessarie per l’edificazione di una controsocietà, si assoggettano al rituale accademico cercando tuttavia di aiutarsi reciprocamente a condurre una vita integra. Formano, per così dire, dei focolai eretici all’interno stesso della gerarchia.

Vasti strati della popolazione guardano però allarmati questi mistici ed eresiarchi moderni, perché minacciano l’economia consumistica, i privilegi democratici e l’immagine che l’America ha di se stessa. Ma per eliminarli non bastano le buone intenzioni, e sono sempre meno quelli che si riesce a riconvertire con la pazienza o a cooptare con l’astuzia, incaricandoli per esempio di insegnare le loro eresie. Di qui la ricerca di mezzi che permettano o di sbarazzarsi dei singoli contestatori o di ridurre l’importanza dell’università che serve da base per la loro protesta.

Gli studenti e gli insegnanti che, con notevole rischio personale, contestano la legittimità dell’università non pensano certamente di fissare dei modelli di consumo o di favorire un sistema di produzione. Quelli che hanno fondato gruppi come il Committee of Concerned Asian Scholars o il North American Congress on Latin America (NACLA) hanno contribuito con estrema efficacia a modificare radicalmente le idee di milioni di giovani sulle realtà di certi paesi stranieri. Altri invece hanno cercato di interpretare in termini marxiani la società americana o sono stati all’origine della fioritura delle comuni. I risultati da essi raggiunti rafforzano la tesi secondo la quale l’esistenza delle università è necessaria a garantire la sopravvivenza della critica sociale. Non si può negare che oggi l’università presenti un complesso unico di circostanze che permette ad alcuni suoi membri di svolgere una critica globale della società. Offre infatti tempo, mobilità, accesso a colleghi e a informazioni, e anche una certa impunità, tutti privilegi che non sono concessi in eguale misura ad altri settori della popolazione. Ma, questa libertà, l’università la fornisce soltanto a chi è già stato profondamente iniziato alla società dei consumi e alla necessità di una qualche forma di scolarizzazione pubblica obbligatoria.

Il sistema scolastico svolge oggi la triplice funzione che nella storia fu sempre prerogativa delle chiese più potenti. È insieme il depositario del mito della società l’istituzionalizzazione delle contraddizioni del mito e la sede del rituale che riproduce e maschera le discordanze tra mito e realtà. Oggi il sistema scolastico, e l’università in particolare, offre ampie possibilità di criticare il mito e di ribellarsi alle sue perversioni istituzionali. Ma il rituale che impone la tolleranza delle contraddizioni fondamentali tra mito e istituzione è ancora largamente incontestato, in quanto ne la critica ideologica ne l’azione a livello sociale possono produrre una società nuova. Solo spezzando l’incantesimo del rituale fondamentale della società e distaccandosene e riformandolo si può arrivare a un cambiamento radicale.

L’università americana è oggi la fase conclusiva del rito d’iniziazione più onnicomprensivo che mai il mondo abbia conosciuto. Non c’è società nella storia che sia potuta sopravvivere senza un mito o un rituale, ma la nostra è la prima che abbia avuto bisogno di un’iniziazione al mito così lunga, noiosa, costosa e distruttiva. La civiltà mondiale contemporanea è inoltre la prima che abbia creduto necessario razionalizzare il suo rituale d’iniziazione fondamentale chiamandolo educazione. Non possiamo neanche pensare a una riforma dell’istruzione se non ci rendiamo conto che il rituale della scuola non favorisce ne l’apprendimento individuale ne l’eguaglianza sociale. E non possiamo superare la società dei consumi se non cominciamo col comprendere che, qualunque cosa in esse si insegni, le scuole pubbliche obbligatorie riproducono inevitabilmente quella stessa società. Il progetto di smitizzazione che io propongo non si può limitare alla sola università. Un tentativo di riforma dell’università che lasci intatto il sistema di cui essa è parte integrante equivarrebbe a un risanamento urbanistico di New York che agisse soltanto dal dodicesimo piano in su. Di fatto le riforme universitarie di oggi assomigliano quasi sempre alla costruzione di tuguri a molti piani. Solo una generazione cresciuta senza scuole obbligatorie sarà in grado di ricreare l’università.

Il mito dei valori istituzionalizzati

La scuola inizia, inoltre, al mito del consumo illimitato. Questo mito moderno si fonda sulla convinzione che il processo debba inevitabilmente produrre cose di valore e che la produzione produca quindi necessariamente una richiesta. La scuola ci insegna che l’istruzione produce l’apprendimento. L’esistenza delle scuole produce la richiesta di scolarizzazione. Una volta che abbiamo imparato ad aver bisogno della scuola, tutte le nostre attività tendono ad assumere la forma di un rapporto clientelare con altre istituzioni specializzate. Una volta screditato l’autodidatta, ogni attività non professionale diventa sospetta. A scuola ci insegnano che un’istruzione valida è il risultato della frequenza; che il valore dell’apprendimento aumenta proporzionalmente all‘input, alla quantità di nozioni immesse e, infine, che questo valore può essere misurato e documentato da voti e diplomi.

In realtà l’apprendimento è l’attività umana che ha meno bisogno di manipolazioni esterne. In massima parte, non è il risultato dell’istruzione, ma di una libera partecipazione a un ambiente significante. Quasi tutte le persone imparano meglio “stando dentro” le cose, eppure la scuola le porta a identificare l’accrescimento della propria personalità e delle proprie conoscenze con una elaborata pianificazione e una complessa manipolazione.

Una volta che ha accettato la necessità della scuola, un uomo, o una donna che sia, diventa facile preda altre istituzioni. Una volta che hanno permesso che la loro immaginazione venisse plasmata da un insegnamento rigidamente pianificato, i giovani sono inevitabilmente condizionati ad accettare qualsiasi forma di pianificazione istituzionale. La cosiddetta istruzione soffoca gli orizzonti della loro immaginazione. Non è neppure da dire che vengano traditi, ma semplicemente sono defraudati, perché gli è stato insegnato a sostituire le aspettative alla speranza. Non avranno più sorprese, buone o cattive, dagli altri, perché gli è stato insegnato che cosa possono aspettarsi da qualunque persona che abbia ricevuto il loro stesso insegnamento. Da qualunque persona come da qualunque macchina.

Questo trasferimento di responsabilità dall’individuo all’istituzione, specie quando lo si è accettato come un obbligo, è una garanzia di regresso sociale. Così, coloro che si ribellano alla propria Alma Mater vi fanno spesso carriera come insegnanti anziché trovare il coraggio di contagiare altre persone con un insegnamento personale e di assumersi la responsabilità dei risultati. Ciò suggerisce una nuova possibile versione della storia di Edipo: Edipo l’insegnante, che si “fa” una madre per generare figli con lei. L’uomo che ha contratto il vizio di ricevere lezioni cerca la propria sicurezza nell’insegnamento coercitivo. La donna che vede nelle proprie conoscenze il risultato di un certo processo aspira a riprodurlo in altri.

 

Il mito della misurazione dei valori

I valori istituzionalizzati che la scuola inculca sono valori quantificati. La scuola inizia i giovani a un mondo dove tutto è misurabile, compresa la loro immaginazione e anzi l’uomo stesso.

Ma lo sviluppo della personalità non è un’entità misurabile. Avviene in una dissidenza disciplinata, che non può essere misurata da nessun metro e da nessun corso di studi, ne può essere paragonata ai risultati raggiunti da qualcun altro. In questo processo d’apprendimento si possono emulare gli altri solo nello sforzo immaginativo, seguendone le orme anziché scimmiottandone i passi. L’apprendimento che io apprezzo è una ricreazione incommensurabile.

La scuola pretende di frantumare l’apprendimento in “materie”, di immettere nel cervello dell’allievo un programma fatto di questi blocchi prefabbricati e di misurare il risultato su una bilancia internazionale. Coloro che accettano le unità di misura altrui per valutare lo sviluppo della personalità finiscono presto per applicare a se stessi il medesimo metro. Non c’è più bisogno di metterli alloro posto, perché sono loro stessi a inserirsi nel buco che gli è stato assegnato, a incunearsi nella nicchia che hanno imparato a cercare e, nel corso di questa operazione, a mettere alloro posto i propri simili fin quando tutto, cose e persone, non combaci.

Chi ha imparato dalla scuola a misurare si lascia sfuggire di mano le esperienze non misurabili; ciò che non può essere misurato diventa per lui secondario o minaccioso. Per questo, non occorre privarlo della sua creatività; l’istruzione gli ha già fatto disimparare a “fare” ciò di cui sarebbe capace o a “essere” se stesso e lo ha portato a dare valore soltanto a quel che è stato, o potrebbe essere, fatto.

Una volta che gli sia stata ben inculcata l’idea che i valori possono essere prodotti e misurati, egli tende ad accettare qualunque sistema di classificazione. C’è un metro per misurare lo sviluppo delle nazioni, un altro per l’intelligenza degli infanti; persino il cammino verso la pace è calcolabile, in base al “conteggio dei cadaveri”. In un mondo scolarizzato la strada della felicità è lastricata di indici di consumo.

 

Il mito dei valori confezionati

La scuola vende un corso di studi: vale a dire, un pacco di merci simili per struttura e metodo di fabbricazione a qualunque altra mercanzia. La produzione di questi corsi nasce nella maggior parte delle scuole da una ricerca cosiddetta scientifica, partendo dalla quale i tecnici dell’istruzione prevedono, nei limiti fissati dai bilanci e dai tabù, la futura richiesta di utensili umani per la catena di montaggio. L’insegnante-distributore porge il prodotto finito all’allievo-consumatore, le cui reazioni vengono attentamente studiate e schedate perché forniranno i dati necessari all’elaborazione del prossimo modello, che potrà essere “senza voti”, “scelto dallo studente”, “basato sull’insegnamento di gruppo”, “fornito di sussidi visivi” o “centrato sui problemi”.

Il risultato di questo processo produttivo assomiglia a tutti gli altri prodotti moderni. È un involto di significati pianificati, un pacco di valori, una merce che per il suo “richiamo ben calcolato” è vendibile a un numero di persone abbastanza alto per giustificare i costi di produzione. Si insegna agli allievi-consumatori a conformare i propri desideri ai valori suscettibili di essere messi sul mercato. In tal modo si ottiene che si sentano colpevoli se non si comportano secondo le predizioni delle indagini di mercato procurandosi i voti e i diplomi che permetteranno loro d’accedere a quella categoria professionale cui sono stati indotti ad aspirare.

Gli educatori possono giustificare corsi di studi più costosi in base alla loro constatazione che le difficoltà d’apprendimento crescono proporzionalmente ai costi del corso seguito. È un’applicazione della legge di Parkinson, secondo cui la fatica aumenta parallelamente alle risorse disponibili per svolgerla. Questa legge trova conferma a tutti i livelli scolastici: per esempio, nelle scuole francesi la difficoltà di insegnare a leggere è diventata un grosso problema solo da quando si sono cominciate a spendere pro capite somme prossime ai livelli americani del 1950, cioè dell’anno in cui le difficoltà di lettura divennero un grosso problema nelle scuole degli Stati Uniti.

In effetti accade spesso che gli studenti mentalmente sani raddoppino la loro resistenza all’insegnamento quando si accorgono di essere sempre più totalmente manipolati. Questa resistenza non dipende dai metodi autoritari della scuola pubblica. o da quelli suadenti di certe scuole libere, ma dalla concezione fondamentale che è comune a tutte le scuole: l’idea che sia il giudizio di una persona a stabilire ciò che un’altra persona deve imparare e quando.

 

Il mito del progresso autoperpetuantesi

Anche quando è accompagnato da una diminuzione dei profitti in termini d’apprendimento, l’aumento pro capite dei costi dell’istruzione accresce, paradossalmente, il valore dell’allievo, sia ai suoi stessi occhi sia sul mercato. A qualunque costo, o quasi, la scuola lo spinge al livello del consumo scolastico competitivo e di qui a una marcia verso livelli sempre più alti. Le spese per indurre lo studente a rimanere nella scuola aumentano vertiginosamente man mano che egli s’arrampica sulla piramide. Ai livelli superiori assumono la forma di nuovi campi di calcio o di cappelle o di programmi chiamati “istruzione internazionale”. La scuola insegna, se non altro, il valore dell’escalation, del modo americano di fare le cose.

La guerra nel Vietnam corrisponde alla logica del momento. Il suo successo è stato calcolato in base al numero delle persone efficacemente toccate da proiettili a buon mercato distribuiti a un costo immenso, e questo calcolo brutale viene spudoratamente chiamato “conteggio dei cadaveri”. Come gli affari sono affari, cioè un’incessante accumulazione di denaro, così la guerra è massacro, cioè un’incessante accumulazione di cadaveri. Analogamente l’istruzione è scolarizzazione, e questo processo senza fine viene calcolato in ore-allievo. Sono tutti processi irreversibili, che trovano in se stessi la loro unica giustificazione. Secondo l’economia, il paese diventa sempre più ricco. Secondo il conto dei morti, la nazione continua all’infinito a vincere la sua guerra. E secondo la scuola, la popolazione diventa sempre più istruita.

I programmi scolastici hanno fame di progressive immissioni di insegnamenti, ma questa fame, se può portare a un assorbimento costante, non dà mai la gioia di apprendere qualcosa con propria piena soddisfazione. Ogni argomento arriva già imballato, con istruzioni perché si continui a consumare una “offerta” dopo l’altra, e l’involucro dell’anno scorso è sempre antiquato per il consumatore di quest’anno. Il racket dei libri di testo prospera appunto su questa domanda. I riformatori dell’insegnamento promettono a ogni nuova generazione quanto c’è di meglio e di più aggiornato e il pubblico è condizionato dalla scuola a chiedere ciò che essi offrono. L’evasore dall’obbligo scolastico, che si sente continuamente ricordare ciò che ha perso, come il laureato, che è indotto a sentirsi inferiore alla più recente leva di studenti, sanno esattamente qual è la loro posizione nel rituale delle crescenti illusioni e continuano ad appoggiare una società che ha battezzato eufemisticamente la crepa sempre più larga delle speranze frustrate “rivoluzione delle crescenti aspettative”.

Ma una crescita concepita come consumo illimitato come eterno progresso – non potrà mai portare alla maturità.

L’impegno a un incontrollato aumento quantitativo invalida la possibilità di uno sviluppo organico.

 

Gioco rituale e nuova religione universale

L’età media in cui si lascia la scuola nelle nazioni sviluppate aumenta più rapidamente della “speranza di vita”. Ancora un decennio e le due curve s’intersecheranno creando un problema per Jessica Mitford e per i professionisti che si occupano di “educazione terminale”. Mi viene in mente il tardo Medio Evo, quando la richiesta di funzioni ecclesiastiche aveva superato la durata stessa della vita e si dovette inventare il Purgatorio per purificare le anime sotto il controllo del papa, prima che potessero accedere alla pace eterna. E questo logicamente portò prima al traffico delle indulgenze e poi al tentativo della Riforma. Oggi il mito del consumo illimitato sostituisce la fede nella vita eterna.

Arnold Toynbee ha fatto notare che alla decadenza di una grande cultura si accompagna di solito la nascita di una nuova chiesa universale che estende la speranza al proletariato interno mentre serve alle esigenze di una nuova classe di guerrieri. La scuola sembra particolarmente adatta a diventare la chiesa universale della nostra cultura in decomposizione. Nessuna istituzione sa meglio nascondere ai suoi partecipanti la discrepanza profonda tra i principi sociali e la realtà sociale del mondo contemporaneo. Laica, scientifica e negatrice della morte, è in perfetta armonia con lo stato d’animo dell’uomo moderno. La sua vernice classica e critica la fa apparire pluralistica, se non antireligiosa. I suoi programmi determinano i confini della scienza e vengono a loro volta determinati dalla cosiddetta ricerca scientifica. Nessuno completa la scuola, neppure ora. Essa non chiude mai le porte a nessuno senza avergli prima offerto un’ennesima occasione: un corso di recupero, l’educazione per adulti e quella permanente.

La scuola serve efficacemente a creare e difendere il mito sociale grazie alla sua struttura di gioco rituale di promozioni graduate. L’ammissione a questo rituale di gioco è molto più importante di ciò che si insegna o del modo in cui lo si insegna. È il gioco in se che ammaestra, che entra nel sangue, che diventa un abito mentale. Tutta una società viene iniziata al mito del consumo illimitato di servizi. Al punto che la partecipazione simbolica al rituale senza fine diventa obbligatoria e coercitiva dappertutto. La scuola incanala la rivalità rituale in un gioco internazionale che obbliga i concorrenti a incolpare dei mali del mondo coloro che non possono o non vogliono giocare. È un rituale d’iniziazione che introduce il neofita alla corsa sacra del consumo progressivo, un rituale di propiziazione i cui sacerdoti accademici fanno da mediatori tra i fedeli e gli dèi del privilegio e del potere, un rituale di espiazione che sacrifica i suoi disertori, quali capri espiatori del sottosviluppo.

Persino quelli che, nel migliore dei casi, trascorrono a scuola alcuni anni – e sono la stragrande maggioranza in America latina, in Asia e in Africa – imparano a sentirsi in colpa per il loro sottoconsumo scolastico. In Messico gli anni di scuola obbligatori per legge sono sei. I bambini appartenenti a quel terzo della popolazione che ha il reddito più basso hanno soltanto due possibilità su tre di andare in prima elementare. Se ci arrivano, le loro possibilità di completare la scuola dell’obbligo fino alla sesta classe sono quattro su cento. Per quelli che invece nascono nella terza parte della popolazione dal reddito medio, queste possibilità salgono a dodici su cento. Con queste percentuali il Messico fornisce tuttavia una quantità di istruzione pubblica superiore a quella di quasi tutte le altre venticinque repubbliche dell’ America latina.

I bambini di tutto il mondo sanno che è stata offerta loro una possibilità, sia pure ineguale, di vincere una lotteria obbligatoria, e la presunta eguaglianza dello standard internazionale aggiunge oggi alla loro povertà di partenza un’autodiscriminazione che chi non va a scuola accetta come un dato di fatto. Essendo stati educati a credere nelle “crescenti aspettative”, possono ora razionalizzare la loro crescente frustrazione fuori della scuola riconoscendo la propria esclusione dalla grazia scolastica. Sono tenuti fuori del Paradiso perché, dopo essere stati battezzati, non sono più andati in chiesa. Nati col peccato originale, vengono battezzati in prima elementare, ma finiscono nella Geenna (che in ebraico significa “ghetto”) per le loro colpe personali. Come Max Weber ha individuato le conseguenze sociali della fede che assicurava la salvezza eterna a chi accumulava ricchezze, così oggi noi possiamo constatare che la grazia è riservata a chi accumula anni di scuola.

 

Il regno promesso: l’universalizzazione delle aspettative

La scuola combina le aspettative del consumatore, espresse dalle sue asserzioni, con la fede del produttore: espressa dal suo rituale. È la manifestazione liturgica di un “culto del cargo” su scala mondiale, che ricorda i culti che si diffusero in Melanesia negli anni quaranta, i cui seguaci credevano che bastasse mettersi una cravatta nèra sul torso nudo perché arrivasse Gesù su un piroscafo a portare a ogni fedele una ghiacciaia, un paio di pantaloni e una macchina da cucire.

La scuola fonde la crescita nella subordinazione umiliante a un maestro con la crescita in un futile sentimento d’onnipotenza, tipico dell’allievo che vuole andare a insegnare a tutte le nazioni la strada della salvezza. Il rituale è modellato sulla rigida organizzazione del lavoro nei cantieri edili e il suo fine è di celebrare il mito di un paradiso terrestre di consumi illimitati, unica speranza per i dannati e i diseredati.

Epidemie di insaziabili aspettative terrene sono scoppiate di continuo nel corso della storia, specie tra i colonizzati e gli emarginati di tutte le culture. Gli ebrei dell’impero romano ebbero i loro Esseni e i loro messia, i servi della gleba nell’età della Riforma il loro Thomas Munzer, gli indiani spossessati, dal Paraguay al Dakota, i loro contagiosi danzatori. Ognuna di queste sette era guidata da un profeta e limitava le sue promesse a pochi eletti. Viceversa l’attesa del nuovo regno suscitata dalla scuola non è profetica ma impersonale, non locale ma universale. L’uomo è diventato il costruttore del proprio messia e promette l’illimitato premio della scienza a coloro che si assoggettano alla progressiva edificazione del suo regno.

 

La nuova alienazione

La scuola non è soltanto la nuova religione universale. È anche il mercato del lavoro in più rapida espansione che ci sia oggi nel mondo. La fabbricazione di consumatori è diventata il principale settore in sviluppo dell’economia. Nelle nazioni ricche, man mano che diminuiscono i costi di produzione, si assiste a una crescente concentrazione sia del capitale che del lavoro nella gigantesca impresa di preparare l’uomo a un consumo disciplinato. Nell’ultimo decennio gli investimenti di capitale in rapporto diretto con il sistema scolastico sono aumentati ancor più rapidamente delle spese per la difesa. Il disarmo non farebbe che accelerare il processo grazie al quale l’industria dell’apprendimento sta diventando il centro focale dell’economia. La scuola offre occasioni illimitate di sprechi legittimi, fin quando non ci si renderà conto della sua distruttività e continuerà ad aumentare il costo dei palliativi.

Se aggiungiamo agli insegnanti a tempo pieno i frequentatori a tempo pieno, ci accorgiamo che questa cosiddetta sovrastruttura è diventata il maggior datore di lavoro della nostra società. Negli Stati Uniti ci sono nella scuola sessantadue milioni di persone, contro ottanta milioni impegnati in altre attività. È un fatto che viene spesso dimenticato dagli studiosi neomarxisti, i quali dicono che il processo di descolarizzazione dovrebbe essere rinviato o accantonato fin quando una rivoluzione economica e politica non avrà posto rimedio ad altre disfunzioni, ritenute tradizionalmente più fondamentali. Ma solo considerando la scuola un’industria si può programmare una strategia rivoluzionaria realistica. Per Marx il costo di produzione della richiesta di merci aveva un’importanza trascurabile. Oggi la maggior parte della manodopera umana è impegnata nel produrre richieste che possano essere soddisfatte da un’industria a forte intensità di capitale. La massima parte di questo lavoro viene fatto nella scuola.

Nello schema tradizionale, l’alienazione era una conseguenza diretta della trasformazione dell’attività lavorativa in lavoro salariato, che toglieva all’uomo la possibilità di creare e di essere ricreato. Oggi invece i giovani vengono alienati in partenza dalle scuole che li isolano mentre pretendono di essere sia produttrici che consumatrici della propria conoscenza, la quale è concepita come una merce messa sul mercato nella scuola. La scuola fa dell’alienazione una preparazione alla vita, togliendo così realtà all’istruzione e creatività al lavoro. Con l’insegnare la necessità di assoggettarsi all’insegnamento, prepara all’istituzionalizzazione alienante della vita. Una volta imparata questa lezione, le persone perdono l’incentivo a svilupparsi in modo indipendente, non trovano più niente che le attragga nello stato di reciproca relazione e si chiudono alle sorprese che la vita offre quando non è predeterminata dalIa delimitazione istituzionale. E la scuola, direttamente o indirettamente, impiega una percentuale importante della popolazione. O tiene con se una persona per tutta la vita o fa in modo che essa si inserisca saldamente in qualche altra istituzione.

La nuova chiesa universale è l’industria del sapere, che per un numero crescente di anni fornisce all’individuo sia l’oppio sia il banco di lavoro. Per questo la descolarizzazione è la premessa indispensabile di qualunque movimento per la liberazione dell’uomo.

 

Il potenziale rivoluzionario della descolarizzazione

Certo la scuola non è affatto l’unica istituzione moderna che abbia come obiettivo principale quello di modellare la visione della realtà. Anche i programmi occulti della vita familiare, del servizio di leva, dell’assistenza sanitaria, delle cosiddette specializzazioni o dei media hanno un ruolo importante nella manipolazione istituzionale del mondo dell’uomo: visione, linguaggio e richieste. Ma la scuola è uno strumento di schiavizzazione più profondo e sistematico, perchè a essa soltanto si attribuisce la funzione principale di formare il giudizio critico e, paradossalmente, essa cerca di svolgere tale funzione facendo dipendere la conoscenza di se stessi, degli altri e della natura da un processo preconfezionato. La scuola ci tocca cosi intimamente che nessuno di noi può sperare di liberarsene con un aiuto esterno.

Sono sue vittime anche molti sedicenti rivoluzionari. Per loro persino la “liberazione” deve essere il prodotto di un processo istituzionale. Solo liberandosi dalla scuola svaniranno simili illusioni. La scoperta che la maggior parte dell’apprendimento non richiede un insegnamento non è suscettibile ne di manipolazioni ne di programmazione. Ognuno di noi è personalmente responsabile della propria descolarizzazione e soltanto noi abbiamo il potere di attuarla. Nessuno può essere scusato se non riesce a liberarsi dalla scuola. Non ci si sarebbe mai potuti liberare dal dominio della Corona se almeno qualcuno non si fosse liberato dall’idea della chiesa ufficiale di stato. Cosi non ci si può liberare dai consumi progressivi se non quando si sarà liberi dalla scuola dell’obbligo.

Tutti siamo coinvolti nella scuola, dalla parte della produzione come da quella del consumo. Siamo superstiziosamente convinti che si possa e si debba produrre in noi un buon apprendimento, e che noi a nostra volta possiamo riprodurlo in altri. Il tentativo di staccarci dal concetto di scuola ci farà scoprire le resistenza che agiscono in noi quando cerchiamo di rinunciare ai consumi illimitati e al diffuso preconcetto che sia possibile manipolare gli altri per il loro bene. Perché nel processo scolastico non c’è nessuno che sia totalmente esente dallo sfruttare il suo prossimo.

La scuola è insieme il più gigantesco e il più anonimo dei da tori di lavoro. È anzi il miglior esempio di un nuovo tipo d’impresa che succede alla corporazione, alla fabbrica e alla società anonima. Alle anonime plurinazionali che hanno dominato l’economia già oggi si affiancano – e forse un giorno ne prenderanno il posto – organizzazioni per la distribuzione di servizi pianificate su scala supernazionale. Queste imprese presentano i loro servizi in modo che tutti si sentano obbligati a consumarli. Sono standardizzate a livello internazionale e idefiniscono periodicamente il valore del loro servizi in ogni luogo e al medesimo ritmo.

I “trasporti” affidati a nuovi tipi di automobili e a nuove grandi autostrade soddisfano lo stesso bisogno predisposto istituzionalmente (di comodità, prestigio, velocità e accessori speciali), siano o no le loro componenti prodotte dallo stato. L’apparato della “assistenza sanitaria” stabilisce una concezione particolare della salute, indipendentemente dal fatto che questo servizio sia pagato dallo stato o dall’individuo. La scala delle promozioni per arrivare al diploma prepara lo studente a occupare un certo posto sulla stessa piramide internazionale della manodopera qualificata, comunque sia diretta la sua scuola.

In tutti questi casi l’impiego è una componente occulta: il guidatore di un’automobile privata, il paziente che si fa ricoverare in ospedale o l’allievo nell’aula scolastica devono oggi essere considerati membri di una nuova classe di “impiegati”. Un movimento di liberazione che partisse dalla scuola, e si fondasse sulla consapevolezza da parte degli insegnanti e degli allievi di essere contemporaneamente sfruttatori e sfruttati, potrebbe preannunciare le strategie rivoluzionarie del futuro; un programma radicale di descolarizzazione potrebbe infatti preparare i giovani alla rivoluzione di tipo nuovo, necessaria per combattere un sistema sociale caratterizzato dall’obbligatorietà della “salute”, della “ricchezza” e della “sicurezza”.

I rischi di una rivolta contro la scuola sono imprevedibili, ma non sono certo spaventosi come quelli di una rivoluzione scatenata in qualunque altra istituzione importante. La scuola non ha ancora organizzato la propria dIfesa con la stessa efficienza di uno stato nazionale o anche di una grande azienda. La liberazione dall’oppressione scolastica potrebbe avvenire in modo incruento. Il funzionario addetto a far rispettare l’obbligo scolastico e i suoi alleati in tribunale e negli uffici di collocamento hanno armi per attuare crudeli provvedimenti contro il singolo contravventore, specialmente se è povero, ma potrebbero rivelarsi impotenti contro l’erompere di un movimento di massa.

La scuola è diventata un problema sociale; viene attaccata da ogni parte, e in tutto il mondo cittadini e governi sollecitano esperimenti fuori delle convenzioni. Per conservare la fede e salvare la faccia devono persino ricorrere a insoliti accorgimenti statistici. Lo stato d’animo di certi educatori assomiglia molto a quello dei vescovi cattolici dopo il Concilio Vaticano II. I programmi delle cosiddette “scuole libere” ricordano la liturgia delle messe folk e rock. Le richieste degli studenti medi di poter dire la loro nella scelta degli insegnanti sono assordanti come quelle dei parrocchiani che chiedono di scegliere i propri pastori. Ma se una minoranza significante perdesse la propria fede nella scolarizzazione, la posta in gioco per la società sarebbe molto più alta. Diverrebbe pericolante non solo l’ordine economico costruito sulla coproduzione di merci e richieste, ma anche l’ordine politico eretto sullo stato nazionale nel quale la scuola sforna i suoi studenti.

La scelta cui ci troviamo di fronte è abbastanza chiara. O continuiamo a credere che l’apprendimento istituzionalizzato sia un prodotto che giustifica un investimento illimitato, oppure riscopriamo che la legislazione, la pianificazione e gli investimenti, ammesso che debbano avere un posto nell’istruzione formale, dovrebbero servire soprattutto ad abbattere quelle barriere che ostacolano oggi le possibilità d’apprendimento, un’attività questa che può essere esclusivamente di carattere personale.

Se non combattiamo il postulato secondo cui la conoscenza valida è una merce che in certe circostanze può essere imposta al consumatore, la società sarà sempre più dominata da sinistre pseudoscuole e da manager totalitari dell’informazione. I terapeuti della pedagogia drogheranno sempre più i propri allievi per insegnare meglio e gli studenti a loro volta si drogheranno con sempre maggiore intensità per concedersi un attimo di sollievo dalle pressioni degli insegnanti e dalla corsa al diploma. Una massa di burocrati in continuo aumento si arrogherà il diritto di atteggiarsi a insegnante. Il linguaggio dell’uomo di scuola è già stato cooptato dal pubblicitario. E ora il generale e il poliziotto cercano di dar lustro alle loro professioni mascherandosi da educatori.

In una società scolarizzata trovano una giustificazione i didattica persino la guerra e la repressione civile. Le guerre pedagogiche tipo Vietnam saranno sempre più accettate come l’unico modo per insegnare alla gente il valore supremo del progresso illimitato.

La repressione verrà considerata uno sforzo missionario per affrettare l’avvento del Messia meccanico. Un numero sempre maggiore di paesi farà ricorso a quelle torture pedagogiche che già vengono impiegate in Brasile e in Grecia. Sono torture che non vengono inferte per estorcere informazioni o per soddisfare le necessità psichiche dei sadici, ma si servono del terrore scatenato a caso per infrangere l’integrità di un’intera popolazione e trasformarla in materia malleabile dagli insegnamenti inventati dai tecnocrati. La natura totalmente distruttiva e costantemente progressiva dell’istruzione obbligatoria arriverà così al suo coronamento logico, a meno che non cominciamo sin d’ora a liberarci dalla nostra arroganza pedagogica e dalla convinzione che l’uomo possa fare ciò che non è possibile a Dio, e cioè manipolare gli altri per la loro salvezza.

Molti si stanno ora accorgendo della distruzione inesorabile cui le attuali tendenze della produzione condannano l’ambiente naturale, ma il potere dei singoli individui di modificare queste tendenze è assai limitato. Anche la manipolazione degli uomini e delle donne, iniziata nella scuola, ha ormai raggiunto un punto di irreversibilità, ma la maggior parte della gente non se n’è ancora accorta e continua a sollecitare la riforma della scuola, nello stesso modo in cui Henry Ford III propone automobili meno inquinanti.

Daniel Bell dice che la nostra epoca è caratterizzata da un distacco totale tra le strutture culturali e sociali le prime impegnate ad assumere atteggiamenti apocalittici, le seconde a prendere decisioni tecnocratiche. Questo discorso vale certamente per molti riformatori dell’istruzione, che nell’intimo sono costretti a condannare quasi tutto ciò che caratterizza la scuola moderna

e tuttavia propongono nuove scuole.

In La struttura della rivoluzione scientifica1, Thomas Kuhn sostiene che una tale dissonanza precede inevitabilmente l’apparizione di un nuovo modello conoscitivo.

I fatti riferiti da coloro che avevano osservato la libera caduta dei gravi o che erano tornati dall’altra faccia della terra o che si servivano dei nuovi telescopi non corrispondevano alla visione del mondo tolemaica. E quindi, quasi all’improvviso, venne accettato il modello newtoniano. La dissonanza che caratterizza molti giovani d’oggi non è tanto un fatto conoscitivo quanto una questione d’atteggiamento, la sensazione di ciò che una società sopportabile non può essere. La cosa veramente sorprendente di questa dissonanza è che un grandissimo numero di persone riesce a tollerarla.

Questa capacità di perseguire obiettivi assurdi esige una spiegazione. Max Gluckman dice che tutte le società hanno propri metodi per nascondere simili dissonanze ai loro membri, e ipotizza che sia proprio questa la funzione del rituale. I rituali infatti possono celare a chi vi partecipa persino le discrepanze e i conflitti tra i principi e l’organizzazione della società. Fin quando un individuo non sia esplicitamente consapevole della natura rituale del processo mediante il quale egli viene iniziato alle forze che regolano il suo cosmo, non gli è possibile spezzare l’incantesimo e foggiare un cosmo nuovo. Fin quando non ci renderemo conto del rituale con il quale la scuola plasma il consumatore progressivo – risorsa numero uno dell’economia – non potremo nè spezzare l’incantesimo di questa economia nè foggiarne una nuova.


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