Il manicomio

Le origini del trattamento della salute mentale

Nel Settecento, il francese Pinel introdusse il “Trattamento morale” degli alienati che iniziarono così a essere dei malati da curare, mentre nei secoli precedenti erano considerati criminali da punire e, prima ancora fino al ‘500, indemoniati da esorcizzare. Il pericolo sociale che rappresentava il cosiddetto malato mentale con il suo essere “diverso” rispetto agli schemi sociali imposti ( anche l’omosessualità era una malattia psichiatrica, poi esclusa perché gli psichiatri dovettero riconoscere che anche tra loro vi erano molti omosessuali), rendeva necessario isolarlo e segregarlo con la violenza e la sospensione di tutti i diritti; così nacquero le strutture per attuare l’internamento e l’affidamento del diverso ad un medico liberando la collettività. Celeberrima struttura costruita ex novo fu il Panopticon progettato come carcere dal giurista e filosofo Bentham nel 1791 dove il legame alla cultura criminalizzante del malato si rende chiaro in quanto la prerogativa rimane il controllo e il mantenimento della disciplina. Il pensiero positivista successivamente introdusse l’osservazione scientifica e la catalogazione di sintomi e patologie dapprima escludendo categoricamente le considerazioni psicologiche. La Rivoluzione Industriale aumentò esponenzialmente le “occasioni di alienazione sociale”anche perché vennero annessi tutti gli individui in qualche modo improduttivi; bandita l’irragionevolezza, l’irresponsabilità, l’incapacità di lavorare e di servire, l’essere non soggetto a sanzioni. Gli ospedali psichiatrici erano chiusi e isolati, collocati in zone marginali e periferiche dei centri abitati e di cura, per non disturbare anche solo la vista dei cittadini sani. Al suo interno la struttura era suddivisa in vari reparti a seconda delle condizioni fisiche e psichiche dei pazienti, età e sesso. Il reparto di accettazione era quello meno duro, in cui i folli erano accolti al loro arrivo e rimanevano durante il periodo di osservazione. Per il resto, una delle esigenze principali era quella di separare i cosiddetti gestibili da quelli che potevano manifestare atteggiamenti violenti e pericolosi. I secondi venivano inviati nel reparto di vigilanza (il cosiddetto reparto degli “inquieti”) da cui non sarebbero più usciti: chi vi accedeva perdeva di fatto ogni possibilità di essere dimesso in futuro. Il reparto dei cronici tranquilli, invece, ospitava i pazienti accondiscendenti, che avevano una maggiore libertà e autonomia, grazie alla loro accettazione delle regole e al rispetto verso l’autorità del personale. Ciò non garantiva loro la possibilità di essere dimessi, nella maggior parte dei casi rimanevano in ospedale fino alla fine dei loro giorni, perché fuori nessuno si sarebbe occupato di loro, così quando queste persone invecchiavano e non erano più autosufficienti, venivano trasferiti nel reparto di infermeria. Alcuni ospedali psichiatrici comprendevano dei reparti per i “sudici”, cioè pazienti incontinenti o incapaci di curare la loro igiene personale di base. Qui, a volte, anziché cercare di fornire autonomia, ci si limitava ad abbandonarli a loro stessi, relegandoli in stanze apposite, con un conseguente peggioramento delle condizioni igieniche e di salute.

Coerentemente con il mandato sociale affidato dalla Legge del 1904, il manicomio era soprattutto un contenitore in cui nascondere e controllare gli “scarti della società”. I propositi curativi venivano messi in secondo piano rispetto a quelli primari del controllo sociale, e riguardavano soprattutto i soggetti che sostavano nella struttura per periodi brevi. Per gli altri, quelli che ci rimanevano tutta la vita, l’allontanamento dalla famiglia e dagli affetti e la violazione della loro privacy, instaurava naturalmente un peggioramento.

 

La società del controllo e dell’interesse economico richiede nuovamente il modello coercitivo; dall’ OPIS ai CRAPS

Dopo la chiusura dell’ OPIS, manicomio interprovinciale di Lecce,Brindisi e Taranto, avvenuta nell’anno 2000 per effetto della legge Basaglia del ’78 che immaginava la chiusura dei manicomi, c’è chi ne ripropone il modello organizzativo.

Un’analisi compiuta tra il 2007 e il 2009 dalla Facoltà di Psicologia dell’Università “Sapienza” di Roma evidenzia un bivio su come affrontare la malattia mentale, rilanciare il controllo o investire sulla verifica. Nel 1931 nasce l’OPIS, l’Ospedale Psichiatrico Interprovinciale Salentino. Negli anni ’40 venero adottati i sistemi di cura più innovativi di quegli anni, l’iniezione di sostanze febbrigene, le endovene di cardiazol per scatenare crisi convulsive, la terapia insulinica, l’elettro-shock, le vaccinazioni endovenose o endorachidee. I nuovi farmaci anticonvulsivi diminuirono la coercizione fisica agendo su quella celebrale. Fu il momento in cui incrementò l’utilizzo fino all’abuso della ergoterapia: pazienti furono destinati ai lavori agricoli, alla lavanderia , la cucina, la sartoria, la tessitura, il ricamo, le pulizie. La malario-terapia, la piretoterapia, la leucotomia, (la recisione di fasci di fibre cerebrali per inibire l’agitazione motoria di alcuni pazienti) furono largamente utilizzati. Lo sviluppo di una sensibilità nuova verso la malattia mentale grazie al lavoro del dott.F. Basaglia, di pari passo all’aumento delle dimissioni del periodo medio di degenza introdusse la questione del reinserimento sociale; così come l’ingresso delle allieve degli istituti di studi sociali con il loro adoperarsi a intrattenere gli ammalati con giochi, feste, riunioni, diedero importanza alla dimensione umana anche favorendo tra i degenti la nascita di relazioni (Sinisi,1994). A 35 anni dalla legge Basaglia, cambiano le sigle ma non la sostanza. A causa delle influenze di interessi economici e della cultura disumanizzante il sistema medicalizzato continua ad essere presente nelle CRAP, residenze psichiatriche riabilitative, dove c’è l’infermiere, le figure sanitarie, dove i pazienti deambulano; persiste l’idea di chiusura, i pazienti fanno tutto lì dentro: dormono, mangiano, ricevono parenti; molti per una vita intera. L’esperienza dell’OPIS fa riflettere amaramente sugli esiti della cultura del controllo e dell’espulsione della diversità tuttora molto spesso invocata. La farmacoterapia e il trattamento di tipo ricreativo-sociale, sono i due interventi che caratterizzano l’ azione sulla salute mentale in Puglia. Il controllo nasce dalla visione del malato mentale come pericoloso e va internato, accanto la visione del lavoro del personale come missione sociale cui assolvere rafforzato dall’ impiego delle suore che consolida l’idea di una scelta sacrificale che, in quanto valore in sé, ignora una verifica dell’operato. Grande assente è la lettura psico-sociale dei problemi di salute mentale in quanto la psicologia e la sociologia si limitano all’intervento psicoterapeutico sull’individuo, considerato estraneo dai contesti di convivenza, senza analisi psico-sociale del fenomeno. Inoltre il trattamento medicalizzato e l’intrattenimento si sviluppano in ambiti completamente differenti: la prima nasce negli ambienti del sapere scientifico, la seconda si sviluppa sul campo, dalle esperienze di rapporto quotidiano con i pazienti e risente degli influssi provenienti dall’area sociologica.

 

I Centri Diurni

“ Esistono corsi e scuole in città. Pullman che con pochi euro portano al mare.Tenere le persone in un luogo sanitario a fare terracotta, è un pò come dire a un paziente che è malato e come operatore, sarebbe ammettere di non saper produrre salute, ma contenere un malessere’.

Dal 31 Luglio, in Puglia sono chiusi i Centri Diurni, nati circa 20/25 anni come luoghi annessi al Centro Salute Mentale, che hanno voluto rispecchiare l’anima basagliana. I centri diurni nacquero in risposta alla nuova domanda sociale che richiedeva un affrontare il disagio mentale non più solo dal punto di vista medico, ma con presupposti culturali, sociali e creativi che contenessero i concetti di reinserimento sociale Pensati negli anni anni 90 per oltre 20 anni sono stati gestiti da operatori aventi queste caratteristiche: creativi, artisti, informatici, attori, scrittori, educatori, artigiani e maestri d’arte nel corso degli anni hanno ottenuto il quasi azzeramento dei ricoveri. Anche i centri diurni si distinguono tra loro nella fase organizzativa; quelli in cui la lezioncina sulla terracotta consente ai pazienti di starsene tranquilli, seduti, tutti in riga, come fossero portatori di handicap fisici gravi, dove la mancanza di un obbiettivo porta al solo intervenire sugli aspetti critici, dove si antepone la diagnosi alla unicità della persona, dove l’imitare le attività ricreative e lavorative, è produrre pazzia e manicomio, e quelli in cui gli operatori culturali impostano relazioni alla pari, agiscono ‘sulle consapevolezze, sulla circolarità delle emozioni, dove operatore e utente sono due persone adulte che fanno cultura e se ne riappropriano in un continuum’. Grande assente nel tempo, la sociologia, che pur fornendo gli strumenti per l’analisi dei fenomeni sociali, non formula una teoria sulla relazione tra istanze individuale e contesto sociale nè, soprattutto, una teoria dell’intervento. In altre parole, si può dire che si avviarono delle iniziative che si riteneva potessero essere utili, senza la base di una teoria che permettesse di collegare tali esperienze con le ipotesi sui problemi.

 

Rosy Trane

 

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