QUALCHE NOTA SULLA CRISI E SULLE RISPOSTE POSSIBILI
Un circolo vizioso senza fine. Il governo Monti vara l’ennesima manovra (24 mld). A prima vista nessuna grande novità: si fa cassa principalmente colpendo le pensioni e la prima casa (che per molti non è un lusso, ma una precisa necessità). Nel complesso si colpiscono i redditi medio-bassi, sia direttamente che indirettamente, come si è sempre fatto, però questa volta “tecnicamente”… quindi con supposizione di rigida imparzialità.
Tuttavia di Monti sappiamo ormai tutto:
Tra le altre cose, come ci ricorda un documento della CUB Piemonte, Mario Monti è:
- “ Responsabile per l’Europa della Commissione Trilaterale, un’organizzazione molto esclusiva fondata da David Rockfeller e che pensa che la democrazia funzioni meglio con un certo livello di apatia delle masse.
- Membro permanente del comitato direttivo del Club Bildenberg, altro circolo esclusivo, che si riunisce una volta all’anno con obbligo di riservatezza, per i suoi membri, su quanto viene detto nelle riunioni (ufficialmente per permettere a tutti di esprimersi “liberamente)”.
- Membro dell’Aspen Institute, centro di pensiero dedito ad elaborare proposte ed analisi per l’elite dominante bipartisan, il cui presidente italiano è Tremonti.
Tutte queste organizzazioni raccolgono gli esponenti di punta del mondo politico e finanziario internazionale e di esse fa parte anche Mario Draghi, neopresidente della BCE e padre delle privatizzazioni italiane… Nelle riunioni di queste organizzazioni si concordano piani ed iniziative che vengono poi tradotti in pratica. Ed allora va aggiunto che Mario Monti è anche, casualmente, consulente di Goldman Sachs, banca statunitense che, secondo Milano Finanza, dopo le dimissioni di Berlusconi, avrebbe speculato facendo alzare lo spread sui titoli di stato italiani. Casualmente, prima di diventare Governatore di Banca d’Italia, Mario Draghi era vicepresidente di Goldman Sachs per l’Europa. Se questi sono i presupposti è difficile ipotizzare che il nuovo governo possa prendere provvedimenti ispirati ad “equità”.
Il punto però non ci sembra essere quello che sta facendo e faranno Monti & C. – che sarà di “più” e di “meglio” di quello che poteva fare il governo Berlusconi (troppo impegnato con gli interessi privati del cavaliere per mettere seriamente le mani nelle tasche degli italiani) o un futuribile governo di centro-sinistra vincolato comunque ad un elettorato popolare – ma piuttosto il significato di questo passamano tra ceto politico e tecnici.
La “politica” non ha abdicato, semplicemente, sotto le bordate della crisi, ha visto entrare in crisi ogni ipotesi di patto sociale praticabile da ciascuno degli schieramenti. Da qui le dimissioni di Berlusconi e il rifiuto di andare alle urne più o meno unanimemente espresso dagli schieramenti politici. A ciò si aggiunga l’erosione del blocco sociale che ha sostenuto finora il centro-destra e la speculare difficoltà per il centro-sinistra di costruirne uno solido. A ciò si aggiunga ancora la “disdetta” che, ripetutamente, il ceto industriale (vedi Marcegaglia e Marchionne) ha dato a quello politico, giudicato non più affidabile e dunque anello debole del sistema concertativo tra parti sociali. Da qui la “scelta Monti”: assumere l’uomo della provvidenza con un contratto a tempo determinato, affidare a un precario di lusso la difficile gestione della crisi e costruirgli interno una union sacrée necessitata dalla congiuntura. Basterà?
Quello che è certo, e bisogna ribadirlo, è che la crisi, che si aggrava sempre più nonostante i tentativi di contenimento messi in campo nei vari paesi e a livello internazionale, non può essere semplicemente addebitata alla speculazione internazionale, alla finanza o a qualche lobby di banche.
Siamo di fronte ad una crisi strutturale e globale, dunque sistemica.
E’ la società capitalista, il suo modo di produzione, i suoi rapporti sociali e di classe, ad essere messa in discussione. E’ un dato tangibile, sotto l’occhio di tutti, e non è necessario essere esperti di economia per coglierlo. Spread, minacce di default, crollo delle borse, declassamento del rating, etc. sono indicatori non del fallimento di questo o quel sistema politico, di questo o quel governo, ma semplicemente quello del modello capitalistico, la sua insostenibilità, l’impossibilità di uscire dal ciclo crisi-ripresa-crisi…, dove le crisi sono sempre più profonde e le riprese sempre più effimere.
Le vie d’uscita, comunque provvisorie, dalla crisi all’interno di questo modello sono due: o il dilazionamento del crollo imponendo lacrime e sangue alla working class o l’immane distruzione di vite e di risorse materiali, come fu fatto con le due guerre mondiali, per riaprire un ciclo di ricostruzione e di accumulazione capitalistica. Tertium non datur. A meno di non voler considerare fantascientifiche misure neo-welfaristiche o di deficit spending per rilanciare i consumi e innescare il “ciclo virtuoso”. Strategie che non sono nelle corde di un capitalismo più che in crisi, ormai putrescente, nel mondo e specificamente in Italia.
La vera domanda è, ineludibile, comunque e sempre: come si può dare una spallata decisiva per trasformare la crisi in crollo e costruzione di un altro assetto sociale?
Le opzioni politiche consuete espresse dai movimenti di lotta che, in questi ultimi tempi si sviluppano sempre più frequentemente (e in modo sempre più frammentato) – e che esprimono una consapevolezza crescente del disastro che incombe, ma non una corrispondente coscienza sulle risposte adeguate da dare – sono “congelate” dall’autosospensione della politica, perché questa hanno come quadro concettuale e ambito d’azione. E questo vale non solo per l’opzione tradizionale elettorale del “governo delle sinistre”, ma in generale per tutte quelle che chiedono la moralizzazione della politica e una sua azione “correttiva” nei confronti della barbarie capitalistica e persino per quelle estreme, minoritarie, che propugnano un attacco frontale (simbolico o materiale) ai “luoghi” del potere finendo, paradossalmente, per legittimarlo. Rimarrebbe da prendere in considerazione l’opzione sindacale, ma il sindacalismo confederale non si è mai posto il problema del cambiamento sociale radicale, ma semmai quello di essere un efficiente puntello alle fortune capitalistiche in un ottica migliorista delle condizioni dei settori più garantiti della working class. Difendere i profitti insieme agli stipendi è sempre stata dura, oggi lo è più che mai.
Minime sono anche le chance del sindacalismo che si autodefinisce alternativo e conflittuale. Premesso che sul piano della mobilitazione conta come il due di picche giocando a dadi, la sua impotenza, se possibile, è più grave sul piano delle idee che su quello dei numeri: nessun progetto, solo uno stancante e patetico reiterarsi di miniscioperi generali su piattaforme (un pelino più radicali di quelle confederali) che non verranno mai prese in considerazione, nemmeno dagli uscieri di palazzo Chigi.
Credo che però, avendo esaurita la parte critica, qualche ipotesi di risposta alla nostra domanda si debba formulare. Se la crisi è strutturale e irreversibile, dunque sistemica, e investe tutti gli aspetti della nostra vita di sfruttati mettendo a repentaglio le stesse condizioni minime di sopravvivenza, è chiaro che la risposta necessaria non può essere che altrettanto complessiva e radicale e va cercata in una diversa organizzazione economica e sociale costruita in opposizione e in alternativa all’esistente. Ciò significa che è necessario abbandonare il velleitarismo (ingenuo?) dei progetti di cambiamento (o moralizzazione, o sovversione che sia) dell’assetto politico. Ciò vuol dire abbandonare il minimalismo (o massimalismo che sia) sindacale in senso stretto, ininfluente rispetto alle necessità reali. Ciò implica invece la necessità di ricostruire, su un piano complessivo, quella che i sindacalisti-rivoluzionari chiamavano l’organizzazione economica dei lavoratori, indipendente da quella capitalistica e destinata a sostituirla. Non si tratta però di rinunciare alla difesa delle condizioni di lavoro e di vita, che anzi deve essere portata avanti in modo radicale e intransigente, ma di riconoscerne la parzialità in assenza di un progetto sociale complessivo fondato sulla prefigurazione e l’attuazione – fin dall’oggi – di rapporti autogestionari, cooperativisti, solidaristi e mutualisti. Altra via non c’è.
Guido Barroero – USI Arti e Mestieri – Genova