CONTRIBUTO AL DIBATTITO: Il cambio di paradigma delle teorie rivoluzionarie agli inizi del nuovo millennio.

L’impeto delle teorie rivoluzionarie nate diacronicamente al sorgente capitalismo, traggono da esso linfa ed ermeneutica, slancio e interpretazione. Scevre da qualsivoglia moralismo implicito, combattono il nemico non negandogli l’indirizzo storico, la superiorità momentanea, la traccia sulla via, ma gli rifiutano la possibilità di compiersi. Soltanto al comunismo, senza varianti, è data la possibilità di concludere i tratti del cammino impiegato, rovesciando non ciò che il capitalismo ha costruito, ma la forma con cui l’architettura è stata edificata. Si sostituisce classe a classe, partito a partito e poi Stato a Stato fintanto che questi, per auto annullamento, per eutanasia delle funzioni, libera forze, saperi, coscienze per una società rinata.

Ma le teorie rivoluzionarie assumono, rovesciandolo, il punto di vista del nemico: progresso, tecnica, mobilitazione, controllo, disciplina, produzione, produttività, macchinismo, scienza. Nemico – forse non solo del nemico di tratta, ma brodo di cultura comune, saperi trasversali, senso comune diffuso, rappresentazioni sociali, interessi. Di qui le biforcazioni e i rallentamenti, i riformismi cauti e i rivoluzionarismi impetuosi, gli sviluppi graduali dei rapporti di produzione e le soggettività auto referenti e volontaristiche, il sindacalismo rivoluzionario e lo sciopero insurrezionale da una parte e il partito militante e blanquista dall’altra, infusione di sapere e guida celebrale del proletariato in armi. Tutti verso la stessa meta, tutti forme diverse della medesima sostanza. Ma anche gli altri, quelli della nazione rivoluzionaria, dell’imperialismo proletario sono imbevuti delle stesse nozioni, ma non più di classe contro classe, ma di nazione contro nazione, di superiorità contro inferiorità, di necessità storiche impellenti che chiedono di unire la Tradizione alla mobilitazione moderna, di unire le masse anonime ad un destino superiore, di ancorare i cannoni, i saperi scientifici, il razzismo biologico all’ordine ‘immutabile’ del mondo. Uguali quindi? Ma per nulla. Molto diversi? Forse neppure.

E in mezzo le timide democrazie elitarie, mandanti armate di una classe borghese in costante evoluzione, mai paga dei benefici assunti e restia a ridistribuire quanto accaparrato. Bisognerà aspettare gli anni ’60 del secolo oramai tramontato per intravvedere timidi tentativi di squarciare il velo della macchina ideologica otto-novecentesca, tentativi troppo prematuri per essere colti, troppo colti per essere compresi, troppo ‘reazionari’ per potenziali rivoluzioni, troppo rivoluzionari per improrogabili restaurazioni: ambientalismo, autogestione, autonomia…

E ora di nuovo in voga, come ribaltamento implicito non solo e non soltanto del capitalismo depredatore, ma anche contro se stessi, contro la propria fiducia nelle forze illimitate del progresso, contro il socialismo come soluzione definitiva. Ma anche deboli, estremamente deboli: di soggettività, di forze, di contenuto, di volontà pratica. Estremamente frammentati fanno di un limite, l’incapacità di relazionarsi, un punto di forza (l’autonomia); fanno di pratiche minime (autogestione, autoproduzione), un punto di resistenza (la non ingerenza altrui); fanno della povertà, una scelta di vita (la decrescita).

Dovremmo ancora una volta amare il nichilismo del Capitale per capire dove andare?

Pietro Stara