Alzatevi come leoni dopo il sonno…Siete tanti, loro son pochi
Shelley, La maschera dell’anarchia
Era da tanto che lo aspettavamo. Governi che cadono in Tunisi, Egitto, Libia, e forse presto in Yemen e Siria; ripetute sommosse contro l’austerity in Grecia, rivolte in Gran Bretagna, 100.000 “incidenti” all’anno in Cina, mesi su mesi di mobilitazione studentesca in Cile; infine, la marea globale di lotte del 2011 è arrivata negli Stati Uniti come Occupy Wall Street (e seguenti occupazioni in forse quasi mille città e centri americani. Per gli Stati Uniti, così come per molti dei Paesi del Medio Oriente, decadi di glaciazione della lotta si sono disciolti in poche settimane. Il 2011 può non aver raggiunto la diffusione globale del 1968, ma negli Stati Uniti almeno, in un certo modo, ha sorpassato il 1968 nei mesi di confronto elevato in così tanti posti contemporaneamente. Così come dicemmo nella scorsa primavera sull’importante precedente a Madison del movimento Occupy dell’autunno, la vecchia talpa ha fatto bene il suo lavoro. Qualsiasi cosa possa succedere da adesso in poi, un nuovo periodo storico si è aperto, e i decenni in cui la schiacciante crisi post-70 era stata sopportata in silenzio, o in cui sporadiche insurrezioni erano state sconfitte in isolamento, sono finiti.
Qualcosa è sfuggito al controllo dei Democratici, delle ONG, del SEIU [Service Employees International Union, ndt] e le sette della sinistra – della società ufficiale e di quelle che cercano solo di fargli il lifting – qualcosa che non sarà facile riportare all’ordine.
Centinaia di migliaia di persone che non avevano mai partecipato a mobilitazioni di massa (o a mobilitazioni di nessun tipo) si sono trovate a fronteggiare la polizia, a fare i conti con i gas lacrimogeni e gli spray al peperoncino, ad andare in prigione e ad imparare per strada ciò che non può essere imparato in nessun altro modo, in particolare il vero ruolo del “corpo speciale di uomini armati” dello stato, e alla fluidità e gli alti e bassi del rivelarsi di un movimento pratico in azione. Così come disse Marx una volta, “un concreto passo in avanti del movimento reale vale cento progetti”. Il 2012 mostra tutti i segni di essere l’anno di ulteriori passi, e tutte le forze del vecchio mondo si stanno contendendo posizioni nell’illegittima speranza di deviare il movimento in una campagna di ri-elezione di Obama e in un movimento sindacale più docile, più gentile, per così tanto tempo regredito, nelle sue preoccupazioni parrocchiali e provinciali, verso il mantenimento dei diritti basilari quanto basta per permettere alla attuale generazione di burocrati di ritirarsi con le loro molteplici pensioni e “aprés nous, le deluge.” [“dopo di noi, il diluvio”]. (Per gran parte della gente, giovani o vecchi, neri o marroni o bianchi, il diluvio era cominciato già da tempo.)
Insurgent Notes, pertanto, dedica il grosso di quest’uscita al movimento Occupy.
Occupy, negli Stati Uniti, suggerisce inevitabilmente il paragone con gli anni ’60. E benché non sia nostra intenzione scoraggiare la maggior parte dei partecipanti a OWS [Occupy Wall Street] e di altrove che sono troppo giovani per aver sperimentato quel decennio, evocando l’ombra lunga degli anni sessanta, qualche breve commento è di rigore per misurare la distanza storica da quell’epoca. Senza dubbio, la situazione sociale ed economica di oggi è di gran lunga peggiore di quella di allora. E’ vero, il 1968 è stato l’anno esatto in cui la tendenza del secondo dopoguerra verso una maggiore equità nella distribuzione dei redditi (non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo del “capitalismo avanzato”) si invertì, per giungere ad essere, negli Stati Uniti, più iniqua oggi che addirittura nel 1929. E un tema comune al 1968 e al 2011 è quella dei giovani laureati in mobilità discendente; solo che, nel 1968, la gran parte della Nuova Sinistra non sapeva che molti di loro erano in mobilità discendente. Nessuno oggi, contrariamente ad allora, parla di “società ricca” o di “società del tempo libero” o dell’incombente “settimana lavorativa di dieci ore”, congetturata da futurologi post-scarsità che non avevano capito che la tecnologia di per sé non è capitale, e che il capitale esiste solo con lo sfruttamento del lavoro umano.
Il movimento del 2011, data la situazione di maggior criticità da cui scaturisce, si è trovato su una curva di apprendimento molto più rapida di quella del movimento statunitense degli anni 60. Se guardiamo agli anni sessanta considerandone la durata, in realtà, dal 1955 (il boicottaggio dei bus a Montgomery, lo sciopero a gatto selvaggio nel settore auto contro il decantato contratto della UAW [United Auto Workers] di quell’anno) al 1973 (la “crisi petrolifera”, la fine del boom del dopoguerra e la fine del movimento a gatto selvaggio), notiamo che non fu prima del 1965 che i militanti neri (qualsiasi fossero i loro altri problemi) ruppero con il primevo pacifismo del movimento per i diritti civili, e che il movimento contro la Guerra in Vietnam ebbe bisogno di anni per spostarsi dalla marginalità all’ampio consenso tra la popolazione, e che il movimento studentesco della Nuova Sinistra bianca e middle-class ebbe bisogno di un tempo simile per evolversi dal vago discontento della Dichiarazione di Port Huron del 1962 a qualcosa che assomigliasse ad una prospettiva anticapitalista (per quanto pervertite fossero le forme staliniste, maoiste e terzomondiste di tale “anticapitalismo”) negli anni 1968-69.
Per contro, il movimento Occupy del 2011, in maniera particolare sulla costa occidentale, ci ha messo solo poche settimane (o meno (1)) per vedere la necessità di un legame con strati più ampi della classe operaia, per cominciare a mettere in discussione (almeno da parte di un’importante minoranza) il sistema capitalistico in sé, per andare oltre il suo primevo impegno pacifista verso la polizia, per tentare, con un qualche successo, di andare oltre l’iniziale nucleo middle class bianco per allearsi con neri e latinoamericani, e, cosa ben più importante, per toccare l’importante corda della solidarietà di una gran parte della popolazione.
L’OWS inoltre riecheggiava la Nuova Sinistra dei primi anni ’60 nella sua sfiducia verso i leader (2), le ideologie e le rivendicazioni. Ciò rispecchiava un decennio o più di esperienza da parte di alcuni dei suoi membri più essenziali in azioni prima e dopo la mobilitazione contro il WTO del 1999 a Seattle, con la formula del consenso assembleare (talvolta diluito ad un accordo del 90 o 80 per cento dell’assemblea), e il “microfono umano”. Questi metodi sono stati sviluppati per molte ragioni, tra queste il contromodello negativo delle lotte della vecchia sinistra e dei tentativi della sinistra settaria di infiltrarsi e manipolare le assemblee in cerca di proseliti. Molte star, Hollywood e dintorni, che hanno visitato i luoghi occupati in solidarietà o a sostegno hanno debitamente accettato le stesse regole. La formula del consenso assembleare può non sopravvivere quando entrano in gioco strati più decisamente operai e quando si presentano al movimento questioni più controverse (le ultime si sono già manifestate in Occupy in varie città riguardo alla questione della polizia, la presenza di simpatizzanti di Ron Paul, le divergenze tra la maggioranza liberal-socialdemocratica delle origini e le emergenti correnti radicali, ecc.), ma ha avuto il merito di forzare i comizianti a parlare in maniera succinta e ad andare al punto, ad evitare digressioni ideologiche e a mantenere alta l’attenzione.
Né tantomeno dovremmo dimenticare che la Nuova Sinistra dei primi anni ’60 iniziò con una sfiducia verso l’ “ideologia”, solo per fnire, nei tardi anni ’60, impantanata nel peggior rigurgito stile “prima la tragedia, poi la farsa” delle varianti staliniste degli anni ’30. “Ideologia” è per definizione una falsificazione della realtà, alla quale contrapponiamo una teoria. “La coscienza è qualcosa che il mondo deve acquistare, anche se non lo vuole”, come una volta scrisse qualcuno (3). Come tutti i movimenti giovanili che scaturiscono da profondi processi sociali, Occupy dovrà confrontarsi più chiaramente sulle proprie posizioni su questioni di programma, sulla sua relazione con i milioni di lavoratori che simpatizzavano da lontano ma andavano alla propria routine lavorativa spesso a pochi isolati dalle occupazioni, sulla dinamica razziale e di classe nella società statunitense, senza contare il modo di produzione capitalistico e la sua abolizione. Ha fatto piacere, davvero, diversamente dagli anni ’60, vedere che i partecipanti di Occupy stavano chiaramente lottando per se stessi, e non in vaga solidarietà con guerriglie di incompresi contadini o regimi bi suoi derivati nazionali hanno avuto, tuttavia, una diffusa ideologia, e tale ideologia era il populismo, una corrente con profonde radici nella storia americana. Mentre l’idea del “99 per cento” serviva per catturare l’immaginazione popolare col suo sottolineare l’inedito accumulo di ricchezza da parte dell’ “1 per cento” (o 0,1 per cento, o 0,01 per cento) nei passati decenni, allo stesso tempo ha nutrito molte illusioni, a partire dall’impegno al pacifismo con la polizia. Ma ugualmente e non altrettanto problematiche erano tutta una serie di mistificazioni, soprattutto il concentrarsi eccessivo sulle istituzioni finanziarie come motore della crisi, opposte alla crisi globale nelle sfere della produzione e riproduzione materiale in corso da decenni (4), di cui la “finanziarizzazione”, per quanto definita e per quanto importante, non è che un sintomo ed una risposta a tendenze più profonde. Tra le miriadi di obiettivi dei movimenti di occupazione, il “capitalismo” era solo un elemento in più di una lista interminabile, con in generale una scarsa consapevolezza di ciò che il capitalismo, o la sua effettiva abolizione, comporta, lasciando in tal modo la porta spalancata a slogan populisti, da “Aboliamo la Federal Reserve” a “Tassate i ricchi” e “Che i ricchi paghino la loro parte”. Una qualche consistente parte di Occupy rimane tuttora vulnerabile al canto delle sirene keynesiane di un Joseph Stiglitz o di un Jeffrey Sachs.
Uno dei punti di forza del movimento era la sua resistenza alla pressione da parte di varie forze esterne, a cominciare dai media, della richiesta di “rivendicazioni concrete”, per non parlare di leader capaci di negoziare tali rivendicazioni (5) e così diventare obiettivi di repressione e co-optazione. Come la metteva qualcuno, anche gli attivisti OWS che avevano delle rivendicazioni non sapevano quali fossero queste rivendicazioni. CLR James sottolineava da tempo che le realtà del capitalismo nella sua fase statale (6) educano la gente direttamente e preparano il punto di partenza della rivolta, con un senso non ancora definito di ciò che è necessario. Per quanto varia e dispersa la specifica coscienza dei partecipanti, la mancanza o il rifiuto di rivendicazioni ha espresso la profonda realtà del movimento quale quello di una società bloccata, che implica una trasformazione totale, benché scarsamente articolata. Quali erano le “rivendicazioni” nella Francia del Maggio del ’68 o dell’Argentina del 2001/2002, o altre situazioni in cui “il potere era nelle strade”? Quali sono le rivendicazioni della Grecia di oggi? La totale trasformazione che si richiede – noi la chiamiamo rivoluzione – non è qualcosa che uno “rivendica”, ma qualcosa che uno fa.
Il movimento inoltre esprime nella sua concreta esistenza ciò che può essere considerata la sua più importante scoperta pratica: dopo decenni di (per lo più) fallimenti della lotta sul posto di lavoro, di dispersione della popolazione lavoratrice nell’ulteriore suburbanizzazione e exurbanizzazione, di intere regioni deindustrializzate, di precarizzazione e declino dell’impiego stabile a lungo termine in un unico posto di lavoro, il movimento Occupy ha scoperto il rimanente centrale spazio pubblico centrale come l’unico luogo di visibilità capace di raggiungere un grande numero di persone. “Rendere la vergogna ancor più vergognosa rendendola pubblica” (Marx (7)) era una parte importante di ciò con cui OWS e i suoi derivati avevano a che fare, dopo decenni in cui una tale degradazione e regressione era stata sopportata in un silenzio atomizzato, sepolti da scadenti media del pseudobenessere e dall’anonimato forzato di gente che soffriva la crescente insicurezza lavorativa, la realtà o la minaccia dell’essere senza tetto, una sanità sempre più cara o del tutto inesistente, diplomi inutili e “riqualificazione” da parte di dubbie, inaffidabili truffe educative, ridimensionamento, allungamento della settimana lavorativa e decremento del salario reale con due e tre lavori precari, pensioni che spariscono, tasse universitarie alle stelle, arbitrari cambi di turno da una settimana all’altra e programmazione (progettata per nessun’altra ragione che stancare, e demoralizzare e frammentare qualsiasi potenziale solidarietà sul posto di lavoro), sorveglianza elettronica, e metodi di produzione “just-in-time” [“all’occorrenza”, senza costi di stoccaggio, ndt]. Come i piqueteros argentini che avevano compreso i crescenti limiti di una lotta concentrata sulla fabbrica, e che avevno esportato la protesta al supermarket, all’ospedale, alla stazione di polizia e al casello autostradale, OWS ha scoperto una forma di organizzazione militante in cui mille diverse sofferenze potevano essere espresse pubblicamente e rese visibili, non da ultimo attraverso un uso spesso sapiente dei nuovi media elettronici.
Insurgent Notes perciò presenta in questa uscita parecchi resoconti sul movimento di occupazione a New York City così come a Baltimora, Atlanta, Los Angeles, e, forse in maniera più importante, a Oakland e Seattle, dove la radicalizzazione era senza dubbio (insieme a Portland) la più profonda e il legame con i lavoratori il più diretto. Questo resoconto mostra, in qualche esempio importante, una evoluzione che si distanzia da sogni pacifisti sulla polizia, la crescente partecipazione dei lavoratori e dei lavoratori di colore, le differenti relazioni locali tra Occupy, il movimento ufficiale dei lavoratori e la base (come a Oakland e a Seattle), come il movimento (come a Seattle) confrontava i problemi della violenza nelle occupazioni, e come, attraverso l’esperienza, è emersa una corrente radicale in contrapposizione alle forze liberal/socialdemocratiche che erano dominanti all’inizio e, in altre situazioni, dove poco di tutto questo era accaduto.
Vorremmo ringraziare per il reprinting di un volantino di Insurgent Notes, distribuito il 17 novembre a Union Square e a Foley Square, in Hella Occupy, un pamphlet distribuito nel paese il 12 dicembre. Apprezziamo la distribuzione extra del nostro punto di vista.
Continuiamo anche la nostra cronaca della decomposizione dell’economia e della società degli Stati Uniti con un articolo sulle infrastrutture statunitensi; con una lettera da Parigi sullo sfondo di Olivier Besancenot, che ha fatto una furtiva apparizione a New York promuovendo il suo disintegrato “Nuovo Partito Anticapitalista”, e infine un aggiornamento sul movimento degli indignati di Barcellona.
Da http://insurgentnotes.com
Note
(1) Non dovremmo dimenticare che Occupy Portland e Occupy Seattle avevano avuto prima di loro sin dall’inizio la realtà (molto lontana dall’essere risolta) del confronto di agosto tra gli scaricatori di porto e la polizia a Longview, Washington, che è stata trattata in vari contributi a questo numero di Insurgent Notes.
(2) L’OWS e altre occupazioni non erano per niente libere da “leader”, così come veniva propagandato ampiamente sia dai movimenti che dai media; cf. Articolo di John Heilemann, articolo del Dicembre 2011 edizione del New York Magazine o gli “anarchici insurrezionalisti” menzionati nell’articolo in questa edizione di uN, menzionati nelledizione di IN. Col tempo, questi leader non-leader sono diventati l’1% del 99 percento.
(3) Karl Marx, Lettera ad Arnold Ruge, 1843.
(4) Per ulteriori approfondimenti, vedere The Remaking of the American Working Class: The Restructuring of Global Capital and the Recomposition of Class Terrain.
(5) Ecco di nuovo, OWS, o una parte raccoglie il successo dei media degli anni 60 nel mettere in piedi “leader” spettacolari” che allor ain un modo o in un altroo ditorcevano la realtà, trovando I propri quindici minuti di fama, e pochissimi che ancora ricordano il grido di battaglia della IWW di un centinaio di anni fa, “Siamo tutti capi”.
(6) CLR James, Facing Reality, Bewick Publications, 1958. James stava parlando del “capitalismo di stato” come un fenomeno mondiale dagli anni ’50, ma la sua osservazione può essere equamente applicata alla senza dubbio più pervasiva, quasi-totalitaristica espansione delle relazioni commerciali da allora.
(7) Un contributo alla Critica della filosofia della ragione di Hegel.