UNA LOTTA OPERAIA AL TEMPO DELLA CRISI

Cantiere di Sestri: una lotta operaia al tempo della crisi

Il cantiere navale di Sestri Ponente è un pezzo della storia della classe operaia genovese. Attivo da oltre centocinquant’anni, ha costruito navi d’ogni genere, mercantili, passeggeri e militari ed è stato al centro delle vicende politiche e sindacali del locale movimento operaio. Negli anni ’50, durante la ristrutturazione postbellica, subì un tentativo di chiusura che portò i lavoratori a occupare lo stabilimento per settantatré giorni, lavorando in autogestione alla costruzione della nave “Volere”. Negli anni ’80 l’IRI, allora diretta da Romano Prodi, ritornò alla carica, ma la mobilitazione dei lavoratori riuscì a spuntarla anche questa volta e il cantiere, sia pure dopo un lungo periodo di ricorso alla cassa integrazione, ricominciò a lavorare a pieno ritmo.

Che cos’è oggi il Cantiere di Sestri Ponente?

È uno degli otto cantieri della Fincantieri, società controllata quasi interamente dal Ministero del Tesoro. Negli ultimi dieci anni ha costruito solo grandi navi da crociera, quasi tutte per il gruppo statunitense Carnival (del quale fa parte anche l’italiana Costa), ma, nel periodo precedente ha realizzato anche navi mercantili e offshore. Occupa poco più di 700 dipendenti diretti (il 60% dei quali sono operai e il resto impiegati e tecnici), con un’età media intorno ai 36 anni, ma l’appalto raggiunge punte di 2.500 – 2.700 lavoratori, provenienti da oltre cinquanta paesi del mondo. In questi ultimi decenni, infatti, la struttura del lavoro navale è cambiata radicalmente: il cantiere che copriva l’intero processo produttivo, dal varo alla consegna, con il lavoro dei propri dipendenti, è stato sostituito da un luogo fisico nel quale la ditta madre (la Fincantieri), organizza, controlla e supporta il lavoro di una miriade di ditte grandi e piccole, in appalto e in sub appalto che utilizzano spesso contratti a termine e a paga globale. Oggi non c’è in pratica nessun settore della produzione, progettazione compresa, in cui non intervengano ditte esterne. Inoltre, essendo la nave un oggetto grande e complesso, che incorpora decine di migliaia di oggetti diversi per tipologia e quantità, l’indotto esterno è molto più esteso e articolato di quello di altri settori e coinvolge altre decine di migliaia di lavoratori.

Il cantiere di Sestri è una fabbrica tradizionalmente sindacalizzata (oltre il 60%), con la FIOM che ha la maggioranza assoluta degli iscritti e dei delegati RSU, sia tra gli operai sia tra gli impiegati. Anzi, in quest’ultimo settore, in controtendenza rispetto alla maggioranza delle altre situazioni, raccoglie l’adesione di oltre un terzo dei lavoratori. Non c’è nessuna presenza extraconfederale. Per un breve periodo, qualche anno fa, un settore della FIOM, composto essenzialmente da giovani operai, si era staccato, aderendo alla FAILMS, per essere riassorbito nel giro di un anno. Ovviamente queste considerazioni valgono per i dipendenti diretti. Nelle ditte d’appalto la rappresentanza sindacale è quasi totalmente assente e i rapporti che si riescono a creare sono più legati a forme di assistenza che ad azioni rivendicative. A peggiorare questa situazione è anche il fortissimo turn over sia delle ditte che dei lavoratori, che rende difficile consolidare rapporti stabili.

La crisi e la lotta.

La crisi economica internazionale, inaugurata dal fallimento della Lehman Brothers nel settembre 2008, ha avuto pesanti ripercussioni sulla cantieristica facendo crollare gli ordini di nuove navi in tutti i settori. Anche quello delle navi da crociera, nel quale la Fincantieri era leader mondiale, ha visto dimezzato il suo carico di lavoro.

La risposta a questa situazione dei vertici aziendali è stata di tagliare la capacità produttiva, chiudendo due degli otto cantieri: Sestri Ponente e Castellamare di Stabia.

L’offensiva per raggiungere questo scopo è iniziata alla fine del 2009. Prendendo a pretesto il mancato raggiungimento di un obiettivo di produzione, la direzione nazionale aziendale ha cercato di creare le premesse al suo piano di chiusura, dimostrando con i dati (assolutamente incontrollabili) la scarsa convenienza a mantenere in attività un sito improduttivo.

Benché apparentemente si trattasse solo del mancato pagamento di un “premio” di qualche centinaio di euro, i lavoratori del cantiere ebbero chiaro sin d’allora che in ballo c’era l’esistenza stessa del cantiere e parteciparono a uno sciopero di quattro giorni, con occupazione dello stabilimento, indetto dalla RSU. Durante questa vertenza, diciotto tra lavoratori e dirigenti della FIOM e della CGIL furono denunciati alla magistratura con l’accusa di aver danneggiato le sbarre d’ingresso al cantiere per permettere l’entrata degli invitati a un’assemblea aperta. Il processo per questo episodio è finito il 2 marzo scorso,  con l’assoluzione di tutti gli imputati.

Sulla questione del premio la direzione fece una parziale marcia indietro ma, nella primavera dell’anno successivo, il giornale “La Repubblica”, anticipò il contenuto di un piano industriale elaborato dall’azienda, che prevedeva la concentrazione delle costruzioni crocieristiche nei cantieri dell’Adriatico e la chiusura di Sestri e Castellamare.  Dopo oltre un mese di lotte e una manifestazione nazionale a Roma durante la quale ai lavoratori furono “ingabbiati” dalle forze dell’ordine in una strada senza vie d’uscita, a un passo dall’essere caricati, il governo Berlusconi costrinse l’Amministratore Delegato a ritirare il piano industriale.

In questa fase sono accaduti due fatti importanti per lo sviluppo della vertenza. Il primo: lavoratori del cantiere e delle ditte d’appalto hanno lottato insieme. C’era già stato un precedente: la partecipazione, due anni prima, a una lotta, costata due giorni di sciopero continuato, contro l’atteggiamento repressivo della vigilanza aziendale ma, questa volta, la mobilitazione è stata più attiva, con gli operai delle ditte, spesso immigrati, che partecipavano in testa ai cortei o ai picchetti ai cancelli. Il secondo: sono scesi in piazza con i lavoratori, oltre che i pensionati e i cittadini in genere, anche i commercianti e gli artigiani della delegazione. Sestri, infatti, ha un’economia che da sempre gira intorno alle grandi fabbriche e, soprattutto, al cantiere. Chiudere quest’ultimo significa dare il via l’impoverimento generale e al degrado sociale.

Nel frattempo gli effetti della crisi si stavano facendo sentire con la diminuzione dei carichi di lavoro e l’apertura della cassa integrazione praticamente in tutti i cantieri del gruppo. Questa situazione d’oggettivo indebolimento fu sfruttata dai vertici aziendali per dividere i lavoratori del gruppo proponendo, qualche volta purtroppo con successo, accordi al ribasso cantiere per cantiere. Ovviamente tali accordi – sottoscritti sempre da FIM e UILM e, in un caso, anche dalla FIOM – escludevano Castellamare e Sestri che, nonostante il ritiro formale del piano industriale, erano considerati comunque da chiudere.

A dicembre 2011, con il pretesto del passaggio dalla cassa integrazione ordinaria a quella straordinaria, la Fincantieri, le RSU di Sestri e FIM, FIOM e UILM sono state convocate a Roma al Ministero del lavoro. A quest’incontro l’azienda si è presentata con un piano industriale che, senza citare esplicitamente la chiusura del cantiere, sanciva l’uscita dello stesso dal settore delle navi da crociera senza assegnarli un altro compito produttivo, riduceva gli investimenti a una cifra risibile (400.000 euro in due anni: a malapena il pagamento delle utenze) e non dichiarava lavoratori in esubero, ma solo perché non era possibile quantificarli (in pratica, tutti). Il tutto contornato da poche briciole d’integrazione alla cassa. Di fronte a un piatto così ricco FIM e UILM hanno subito firmato, mentre la FIOM ha dichiarato subito uno sciopero che, nella prima fase è durata una settimana, con l’occupazione del cantiere e, nel periodo successivo, ha visto l’invasione dell’autostrada e dell’aeroporto di Genova. In due mesi sono state fatte oltre 180 ore di sciopero ed è stato minacciato il blocco della nave in costruzione in questo periodo. L’obiettivo minimo – ma molto difficile da raggiungere – era quello di ottenere una diversa suddivisione delle commesse già acquisite da Fincantieri o un nuovo carico di lavoro per impedire che, alla partenza della nave in costruzione, prevista per marzo, tutti i lavoratori finissero in cassa integrazione e quindi con la fabbrica in pratica chiusa.

Il 15 febbraio, alla Confindustria di Genova è stato firmato un accordo che prevede un carico di lavoro di circa sei mesi, “eccedenze temporanee” da gestire attraverso la cassa integrazione a rotazione e la messa in lista di mobilità solo su base volontaria.

Conclusioni

Come in qualsiasi conflitto, i concetti di vittoria e sconfitta si possono definire solo in base agli obiettivi che si pongono i contendenti. Se il tuo nemico vuole distruggerti, la tua sopravvivenza, anche se ti è costata un caro prezzo, rappresenta la sua sconfitta. In questo senso l’accordo raggiunto rappresenta una vittoria dei lavoratori, sia pur parziale e con effetti limitati nel tempo. Permette ai lavoratori di Sestri di arrivare, insieme con quelli di tutto il settore, all’appuntamento con il precipitare della crisi della cantieristica che avverrà, se non ci sarà un’improbabile svolta nella politica governativa, presumibilmente entro un anno o due. L’alternativa sarebbe stata quella di essere chiusi oggi e non poter partecipare alle lotte di domani. E, a queste lotte, i lavoratori dei cantieri ci arriveranno più forti perché in questi ultimi due anni hanno partecipato a una lotta vera. In questo periodo, infatti, la stragrande maggioranza degli operai e degli impiegati che, per ragioni generazionali, non avevano mai partecipato attivamente a uno sciopero, che erano poco sindacalizzati (di là dall’adesione o meno a un sindacato), hanno organizzato manifestazioni e picchetti, hanno discusso le forme di lotta in assemblea e poi le hanno praticate. In altre parole: hanno imparato a lottare e ciò, di questi tempi, non è poco.

Pietro Acquilino

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