BRASILE: TRA “MIRACOLO” E CRISI

I due contributi di Pier Francesco Zarcone offrono preziosi elementi per affrontare gli avvenimenti brasiliani.

Resta però troppo sullo sfondo l’attuale crisi sistemica del modo di produzione capitalistico: se non viene considerata in tutte le sue implicazioni economiche e sociali, c’è il rischio di fare i conti senza l’oste.

Per esempio, negli ultimi anni in Brasile si è ridotto il tasso di povertà, ma a quale prezzo? Il prezzo è un’accentuata proletarizzazione di vasti strati della popolazione brasiliana che, prima, avevano un pur miserabile accesso a risorse (nell’agricoltura) che oggi è loro precluso. Sono diventati parte di un immenso esercito industriale di riserva, ma con esigue prospettive di entrare nei processi produttivi reali. Sono proletari destinati a vegetare nelle sterminate periferie delle metropoli, dove vive l’82% della popolazione brasiliana. Stipata in immense favelas sottoposte a controllo militare.

Altro che sottoproletari! Come dicono i miopi sociologi occidentali.

Zarcone dà molto spazio alla corruzione – peraltro inferiore a quella italiana –, dice cose interessanti e importanti, ma non cita l’onnipotente lobby petrolifera Petrobras (industria di Stato), profondamente connessa al partito al potere, il PT, e alla Presidentessa Dilma.

Zarcone non cita la speculazione sulla soia (agrocombustibile), grazie alla quale il presidente operaio creò il miracolo brasiliano. Miracolo che costò la deforestazione selvaggia di ampie zone dell’Amazzonia, con conseguente disastro ambientale, e sociale, poiché in quelle zone ci abitano (ci abitavano?) gli indiani.

A proposito di disastri ambientali, c’è anche la diga di Belo Monte (Stato di Parà), sicuramente peggio, in termini di dissesto sociale, della nostra Tav.

Su tutti questi prevedibili disastri le lobby della sinistra cialtrona avevano steso un velo demenziale, esaltando uno sviluppo che creava più danni di quanti ne volesse riparare. Se mai il Pt & Co voleva riparare qualche cosa, quando invece pensava solo ad arraffar quattrini.

Dino

 

 


 

IL NUOVO «MIRACOLO» BRASILIANO

 

di PIER FRANCESCO ZARCONE

 

Una mobilitazione dal basso e inattesa

Nei primi giorni delle mobilitazioni popolari in Brasile, sui giornali e nei discorsi della gente si poteva leggere lo sbalordimento di fronte al fatto che in uno dei luoghi mitici del calcio nazionale e internazionale, nel paese del sole, del samba, delle belle ragazze e dell’allegria esplodesse una rivolta di massa, non solo giovanile. Occasionata dall’aumento delle tariffe dei trasporti pubblici a Rio de Janeiro e São Paulo, si è subito orientata anche e soprattutto contro le folli spese in corso per ospitare i prossimi eventi calcistici e sportivi internazionali (Coppe varie e Olimpiadi).

A tale sorpresa si è unito quella dei non-disinteressati paladini dell’attuale e selvaggia “liberalizzazione” capitalistica, della quale il Brasile è stato un teatro vasto, famoso e duraturo nel tempo. Dove mai andremo a finire, si chiedono i benpensanti liberisti di destra e di sinistra se anche tra i giovani di un paese come il Brasile si diffondela preferenza per trasporti pubblici efficienti e a prezzi popolari, per ospedali e scuole invece che per gli stadi?! È diventato uno slogan dei manifestanti “quero dinheiro para saúde e educação”. Citiamo per tutti la rivista britannica The Economist che, in un recente reportage sul Brasile, dopo aver additato nell’inflazione la causa del malcontento esploso nel paese, se l’è presa con quanti «invece di essere grati per le briciole che cadono dalle tavole dei ricchi brasiliani, si sono svegliati per il fatto di pagare le imposte e di meritarsi qualcosa in cambio».

 

Comunque sia, centinaia e centinaia di migliaia em mangas de camisa (equivalente portoghese del castigliano descamisados) intanto sono riusciti a far rientrare il provvedimento che aumentava il prezzo dei pubblici trasporti.

E questo è un primo dato da tenere a mente. Ma non per questo la protesta è finita giacché sono entrati a fare parte del pacchetto delle rivendicazioni la gratuità dei trasporti, il carovita, il carico tributario, l’intera politica economica del governo, le disuguaglianze socio-economiche, la corruzione, la violenza della famigerata polizia brasiliana, mentre si diffonde il pericoloso detto radicale “a política se faz nas ruas”.

Ancora più sovversivo il discorso di Paulo Motoryn: «Quello che vogliamo è abbattere le barriere fra ricchi e poveri, rompere i muri fra centro e periferia, consolidare il popolo come attore politico d’importanza senza pari e lottare per un Brasile con giustizia sociale, senza disuguaglianze e con opportunità per tutti e tutte. Niente di più, niente di meno». È esploso quindi un malessere diffuso e fin qui sotto traccia e – come in Turchia – per un motivo in sé minimale: l’aumento contestato era di appena 20 centavos, cioè 20 centesimi.

Altra delusione sicuramente colpisce chi si nutre dei luoghi comuni diffusi dai media politicamente corretti: il governo del Brasile da circa dieci anni è governato dal Partido dos Trabalhadores (Pt) di Lula da Silva e Dilma Rousseff (le cui antiche velleità rivoluzionarie sono state da tempo archiviate per fare posto a una tranquilla navigazione socialdemocratica), il paese ha una rilevante crescita macroenomica, a Rio la criminalità sembra in diminuzione; c’è la rassicurante militarizzazione delle favelas, e così via. Eppure …

 

Forchettoni rossi alla brasiliana

Una cosa è sotto gli occhi di tutti: la sinistra brasiliana al potere non da ieri ha smesso di essere tale (e non solo per i ricorrenti, e ormai endemici, episodi di corruzione), cosicché pure in Brasile si è verificato l’ennesimo tradimento degli ex rivoluzionari diventati socialdemocratici e “forchettoni rossi” in salsa tropicale. Sotto questo profilo è illuminante lo scritto pieno di amarezza pubblicato il 22 giugno da Folha de São Paulo, nel quale si parla di illusioni indotte «dalle vecchie volpi di sinistra con la loro mimica democratica, mentre decidevano tutto in conventicole al calar della notte. (…). Il bene era la sinistra, il male la destra. La sinistra poteva fare emerite cacate, manipolare opinioni, perfino sviare fondi per la causa. “I fini giustificano i mezzi”, dicevano le dirigenze progressiste.

Alla fine siamo riusciti ad abbattere la destra e mettere al potere la sinistra. E che si è visto? La maggior sequenza di scandali e corruzione della nostra storia. Le menzogne si ripetono, i nemici raggiungono accordi, destra e sinistra fanno di tutto per mantenersi al potere».

Passati gli entusiasmi iniziali per la prima vittoria elettorale di Lula, il sistema brasiliano dimostra oggi di aver mantenuto strutturalmente inalterate le sue caratteristiche di sempre: profonde disuguaglianze sociali di massa, e dominio – economico, politico e nell’apparato statale – da parte di un’oligarchia di cui oggi fanno parte anche settori “di sinistra”;

bassi salari, i cui leggeri aumenti (sono sempre al di sotto della crescita dell’economia nazionale) sono mistificati dalla discesa dei tassi di interesse che hanno consentito incrementi nei consumi finanziati dai prestiti;

servizi pubblici essenziali sulla cui qualità ed efficienza è meglio stendere un pietoso velo, perennemente (e di proposito) decapitalizzati;

infrastrutture inadeguate;

delinquenza di notevole entità.

Taluni miglioramenti nelle condizioni di vita di certi strati della popolazione non sono sufficienti a modificare questo quadro.

La crescita macroeconomica c’è, e ancora si mantiene, ma la redistribuzione della ricchezza è minimale e ben al di sotto del possibile, e le aspettative – spontanee o indotte – di salariati, giovani ed emarginati che hanno votato per il Partido dos Trabalhadores (Pt) sono rimaste irrealizzate. Spesso, anzi, svolte demagogiche si sono risolte in sperperi di denaro a favore di quelli che avrebbero dovuto essere i “nemici di classe”.

È stato il caso della famosa interruzione del pagamento del debito estero, voluta da Lula, poi risoltosi nel pagamento del debito stesso a interessi ancora superiori. Innegabilmente il Brasile è sfuggito agli artigli del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), ma a un prezzo pesante: il paese è caduto nelle mani di creditori interni, cioè l’oligarchia nazionale, che hanno lucrato tassi di interesse oltre il 10%, di modo che l’equivalente del 5,4% del

Prodotto Interno Lordo del 2009 è andato a favore di questi benefattori nazionali, per un ammontare finanziario che viene calcolato pari a 13 volte di quanto Lula aveva destinato al programma sociale. Famosa è rimasta la sua dichiarazione riportata dal giornale Folha de São Paulo il 22 maggio del 2009: «Se c’è una cosa di cui nessun imprenditore brasiliano potrà lamentarsi nei miei sei anni di mandato è che mai si è guadagnato tanto denaro come col mio governo»!

Peccato che non possano dire lo stesso i ceti popolari per i quali un aumento dei trasporti diventa un onere pesante, magari la classica goccia che fa traboccare il vaso.

Anche in Brasile i commentatori politicamente corretti hanno manifestato stupore per una così massiccia contestazione sociale in una fase di tangibile miglioramento dei consumi e di facile accesso al credito. Volutamente dimenticando che nella storia dell’umanità i sommovimenti sociali non si verificano solo nelle fasi di crisi economica, cioè quando le masse degli emarginati non hanno più niente da perdere e nulla da ottenere nemmeno ricorrendo alla microcriminalità; ma anche (e a volte soprattutto) nelle fasi di crescita, perché queste consentono una maggiore presa di coscienza della propria condizione e delle inerenti ingiustizie.

Non manca chi arriva ad attribuire all’economia brasiliana un ritmo di crescita eccessivo, biasima la fretta con cui ci si è avviati alle prime (e insufficienti, diciamo noi) costruzioni di uno Stato sociale e sostiene che gli attuali livelli di consumi sarebbero al di sopra delle possibilità del paese. Si tratta di una canzone ben nota, che non ci si stanca di ripetere. Creare sensi di colpa in chi per la prima volta comincia a godere di un minimo benessere dopo una vita di povertà additandolo come causa delle difficoltà economiche di un paese, è sempre facile, ed evita di parlare di corruzione e dei flussi di denaro pubblico sviati in favore di privati “amici degli amici”.

 

Cercando meglio le cause, si dissolvono le favole dei media

Diciamocela tutta: senza l’improvvisa esplosione della rivolta brasiliana i nostri imperturbabili mass-media avrebbero continuato a darci la solita edulcorata immagine del Brasile, con la sua crescita economica, il miglioramento delle condizioni di vita, la gente che viene da fuori per cercare lavoro e così via. Ora “improvvisamente” gli stessi media scoprono tutto quel che non va e adesso, per esempio, la Cnn statunitense fornisce un quadro chiaro e preciso di quanto sta dietro le manifestazioni:

«Il Brasile sta sperimentando attualmente un collasso generalizzato nelle sue infrastrutture. Ci sono problemi con porti, aeroporti, trasporti pubblici, sanità e istruzione. I brasiliani non vedono quali siano le ragioni per infrastrutture così brutte quando c’è tanta ricchezza così altamente tassata. Nelle capitali le persone perdono fino a quattro ore al giorno nel traffico, sia in automobile sia nel trasporto pubblico che è davvero di bassissima qualità.

Il governo brasiliano ha adottato misure per rimediare e controllare l’inflazione solo intervenendo sulle tasse e ancora non ha capito che il paradigma deve includere un intervento più centrato sulle infrastrutture. Nello stesso tempo il governo sta riproducendo su scala minore quanto fatto dall’Argentina qualche tempo fa (…) il che sta portando a inflazione alta e bassa crescita. Oltre al problema delle infrastrutture esistono vari scandali per corruzione che rimangono senza giudizio processuale, e quando i giudizi ci sono tendono a concludersi con l’assoluzione del reo. Il maggiore scandalo per corruzione della storia del Brasile finalmente è finito con la condanna dei rei e ora il governo sta tentando di ribaltare l’esito del processo manovrando attraverso emendamenti costituzionali incredibili, come il Pec [Proposta di Emendamento Costituzionale] 37 che eliminerà i poteri investigativi dei Pubblici Ministeri, delegandoli interamente alla Polizia Federale. In più, un’altra proposta cerca di sottoporre le decisioni della Suprema Corte Brasiliana al Congresso – una completa violazione dei tre poteri».

E anche questo scandalo legislativo ha infiammato vasti settori della popolazione.

A ben guardare con la protesta contro un aumento minimo delle tariffe dei servizi di trasporto si viene ad affrontare un tema tanto essenziale quanto politicamente scorrettissimo, e cioè si mette in discussione la polarizzazione fra interessi pubblici e privati risolta dal neoliberalismo della globalizzazione a favore di questi ultimi, mentre si dichiara che la specifica questione relativa a chi debba finanziare i costi di un servizio pubblico essenziale non va impostata subordinatamente alla brama di profitto delle imprese private.

In questo quadro l’ex calciatore Pelé ha perso l’occasione per stare zitto: di fronte a un popolo giustamente inferocito per ragioni materiali concrete non ha trovato di meglio che invitarlo a farla finita con le proteste di strada per concentrarsi nell’appoggio alla Nazionale durante la Coppa delle Confederazioni e il Mondiale 2014. Quanto Pelé sia lontano dalla realtà (o faccia finta di esserlo) lo dimostra la contestazione subita dalla Presidente Rousseff proprio all’inaugurazione della Coppa delle Confederazioni. Si tratta di un avvenimento significativo poiché realizzato da un pubblico tutt’altro che di estrazione proletaria, tant’è che ha potuto pagare il costo di 350 euro per biglietto. Nei fatti esso esprime lo scontento di una classe media o medio-piccola obiettivamente nata dalle politiche fin qui sviluppate da Lula e Rousseff, che rispetto al passato ha potuto migliorare le proprie condizioni di vita,

ma che con l’inflazione attuale teme di arretrare socio-economicamente.

D’altro canto c’è molto da dire quando in un paese disastrato nelle infrastrutture e nelle condizioni di vita della maggior parte del popolo si sperperano per i prossimi eventi calcistici le somme diffuse dalla Folha de São Paulo: per il Mondiale 2014 – benché la previsione iniziale fosse di 8.300 milioni di euro – già se ne sono andati 9.200 milioni, che alla fine potrebbero arrivare a 11.500 milioni; l’85% del finanziamento è a carico dello Stato brasiliano (governo federale, governi statali e municipalità); i costi per i 12 stadi che ospiteranno il Mondiale sono pure lievitati da 1.900 milioni a 2.500 milioni di euro. Tutto ciò per qualcosa che durerà meno di un mese.

Necessariamente gli oneri tributari dovranno aumentare ancora, ma i veri guadagni andranno solo a poche megaimprese e ai politici percettori di tangenti e benefici vari.

Il governo non dà informazioni, ma le voci circolano e taluni già vedono operai al lavoro vicino a casa loro: le varie opere necessarie per il Mondiale (corridoi metropolitani, accessi ferroviari, ricostruzione di strade, ampliamento di aeroporti e relativi parcheggi, nuovi appartamenti) richiederanno lo sloggiamento dalle attuali abitazioni di circa 170.000 persone. Naturalmente si tratta di insediamenti popolari e ultrapopolari. Ci saranno indennizzi? E in che proporzione? Nessuno lo sa, il. Governo per lo più tace. In buona sostanza i lavori per il Mondiale sono l’occasione propizia per una grande “pulizia sociale” e per lucri immensi della speculazione edilizia. Intanto resta nel paese il deficit abitativo di 5 milioni di alloggi.

 

C’è calcio e calcio, e la Fifa vuole farla da padrona

Tra gli osservatori sudamericani (certo più attenti di quelli europei) esiste la conclusione che in Brasile in definitiva – nonostante le apparenze e se si guarda agli accessi agli stadi e ai beneficiari degli introiti sportivi – il calcio in Brasile sia cosa alquanto elitaria; e che eventi come il Mondiale contribuiscano a fare degli stadi piattaforme o occasione per gli affari con chiusura per i più.

Se guardiamo alla storia del famoso stadio di Maracaná si deve convenire che la predetta conclusione non è propriamente campata per aria. Nel 1950 alla finale tenutasi al Maracaná assistette l’8,5% della popolazione di Río de Janeiro e l’80% degli spettatori occupava i settori popolari dello stadio. Oggi il Maracaná è un’area “multiuso”, sede di eventi sportivi, recital musicali e show di vario tipo. Appositi vetri separano dal resto degli spettatori i Vip, i quali possono accedere allo stadio direttamente con l’auto e dispongono di una rampa riservata che fa loro evitare il contatto con la plebe.

A causa della finale del Mondiale 2014 e dei Giochi Olimpici del 2016 il Maracaná va ristrutturato (lasciando solo la vecchia facciata), con un costo minimo di 600 milioni di euro, ma alla maniera di un teatro. Quindi, niente più posti in piedi (come fu nel 1950) ma solo sedili numerati. Questo stadio che fu uno dei maggiori del mondo, ma ora è sceso al 14º posto, cesserà definitivamente di essere uno spazio popolare.

Non può certo aver fatto piacere a molti brasiliani la notizia che ampi spazi verranno privatizzati in favore della Fifa, la quale potrà pure contrattualizzare in proprio 53.000 guardie di sicurezza, a spese però dello Stato brasiliano, e che ogni stadio sarà dotato di una radio su cui la Fifa avrà l’esclusiva.

E c’è molto altro, perché nel 2012 – piegandosi all’arroganza della Fifa a tutela dei suoi profitti – il Parlamento ha approvato una legge generale per la Coppa delle Confederazioni secondo i criteri voluti dalla Fifa medesima, per quanto in palese conflitto con la legislazione brasiliana. Per esempio, in Brasile è proibita le vendita di alcolici negli stadi: invece la vendita viene liberalizzata; la Fifa ha voluto una deroga alla normativa vigente che prevede lo sconto del 50% sui biglietti degli stadi per studenti, pensionati, invalidi ecc., nonché la sospensione della “legge Pelé” che attribuisce il 5% degli introiti della vendita di audiovisivi sugli eventi sportivi ai sindacati degli atleti professionisti; la Fifa inoltre ha preteso l’emissione di visti e permessi per tutti i membri delle delegazioni – compresi invitati, funzionari, giornalisti e spettatori muniti di biglietti – con validità fino al 31 dicembre 2014, cioè fino a sei mesi dopo il termine del Mondiale; le è stato accordato il diritto di autorizzare la vendita di qualsiasi merce non solo nei luoghi delle gare, ma altresì nelle loro prossimità e nelle vie di accesso; inoltre le aree esclusive per il commercio dei suoi prodotti sono definite dalle municipalità secondo le richieste della Fifa medesima e/o addirittura dei terzi da essa indicati; i venditori ambulanti non possono operare nel raggio di due chilometri dagli stadi. Dulcis in fundo si prevede la possibile istituzione di Giudici Speciali per le controversie inerenti allo svolgersi degli eventi.

Per inciso notiamo che questa legge (la nº 12.663, del 5 giugno 2012) di recente è stata impugnata innanzi al Supremo Tribunale Federale dalla Procura Generale della Repubblica.

 

La presidenza dell’ex guerrigliera Dilma Rousseff

Assurta alla presidenza, Dilma Rousseff ha decisamente puntato all’accelerazione del processo che dovrebbe portare il Brasile a diventare una potenza globale. Sul piano formale sia Lula sia la Rousseff hanno sviluppato in modo proficuo un’accorta politica d’immagine, tutto sommato ancora funzionante e lo dimostra il fatto che mentre dinanzi alla protesta turca si è immediatamente parlato di scontro fra “due Turchie”, per la rivolta brasiliana si stenta un po’ a parlare di quei “due Brasili” che invece esistono. Questo aspetto è stato messo in evidenza e approfondito da Folha de São Paulo in un articolo del 21 giugno. Vi si dice che la difficoltà di un tale riconoscimento sta nella specifica natura di quello che potremmo chiamare “altro Brasile”, suscettibile di tre visualizzazioni:

la prima visualizzazione è quella dell’enorme esclusione sociale, le cui cause risalgono sì all’era coloniale, ma si sono riprodotte sia pure mutando le forme e i suoi attori dominanti rimangono le oligarchie dei grandi proprietari terrieri e il violento caciquismo, le ristrette e razziste elite politiche;

la seconda, comprende la rivendicazione della democrazia partecipativa risalente agli ultimi 25 anni, concretizzatasi finora nel processo che ha portato alla Costituzione del 1988, ai bilanci partecipativi, alle politiche urbaniste di tante municipalità, alla destituzione dell’ultracorrotto Presidente Collor de Mello nel 1992, la creazione di Consigli cittadini per i principali settori delle politiche pubbliche (sanità e istruzione) e ai vali livelli (municipale, statale e federale);

la terza attiene alle politiche di inclusione sociale iniziate da Lula nel 2003, dalle quali sono derivate una riduzione della povertà, la creazione di una classe media propensa al consumo, il riconoscimento della discriminazione razziale verso neri e indigeni.

Relativamente alle ultime due visualizzazioni la presidenza della Rousseff la precedente accelerazione si è fermata ed è regredita, con questo riguadagnando terreno l’esclusione sociale. Oggi la democrazia partecipativa non funziona più come prima; le generazioni più giovani – scarsamente sostenute da una vita famigliare e comunitaria capace d’integrazione – restano preda di una spinta consumistica a cui spesso non sono in grado di fare fronte; le politiche di inclusione sociale si sono esaurite e con esse le inerenti aspettative popolari; la vita urbana è peggiorata anche grazie alla preparazione di prestigiosi eventi internazionali, per i quali sono stati sviati investimenti destinati ai trasporti, alla sanità, all’istruzione e più in generale a tutta l’area dei servizi pubblici; infine sono aumentati il razzismo e le uccisioni di leader contadini e indigeni visti come ostacolo alla sviluppo.

 

Si può azzardare qualche previsione?

Ancora una volta nella più recente storia contemporanea la cosiddetta rete sociale ha svolto un ruolo fondamentale nella mobilitazione popolare, e infatti è del giorno 20 la notizia che la Abin (Agência Brasileira de Inteligência) è stata incaricata di monitorare quel che succede nella Rete.

E ancora una volta le statistiche citate da Folha de São Paulo forniscono un determinato quadro: l’84% dei manifestanti non apparterrebbe ad alcun partito politico, il 71% ha partecipato per la prima volta a manifestazioni e il 53% ha meno di 25 anni. Notevole la partecipazione di studenti e persone con titolo di studio superiore se rapportata ai dati nazionali (fra i manifestanti gli studenti ammontano al 22%, mentre nel paese sono solo il 5%, e quanti hanno terminato studi superiori ammontano al 77% dei manifestanti, mentre nel paese sono il 22%).

È significativo e importante che i manifestanti per lo più non vogliano commistioni, interferenze o strumentalizzazioni da parte di partiti politici. Ci sono stati tumulti fra manifestanti e membri di partiti. A São Paulo militanti del Pt presentatisi alle manifestazioni sono stati chiamati opportunisti, e lo spiegamento di bandiere di partiti a sinistra del Pt (come il Partido Socialista dos Trabalhadores Unificados-Pstu e il Partido Socialismo e Liberdade-Psol) è stato fortemente contestato.

Non a caso il famoso cineasta di Pernambuco, Rosemberg Cariri ha così commentato le manifestazioni: «è un avvenimento storico importante: il popolo nelle strade. Contro i mega-imprenditori, le opere per la Coppa, il mercato cannibale, l’aumento dei trasporti, la stampa manipolata, la violenza fascista poliziesca, la mancanza di scuole e ospedali (…) Ora manca solo che siano innalzate le bandiere di protesta contro i massacri di indios, neri, bianchi e meticci poveri, di diseredati figli della terra che resistono nelle periferie, nelle favelas e nei campi».

Intanto l’agitazione prosegue sempre più massiccia, ma non sembra che le “autorità” – manganellate e lacrimogeni della polizia a parte – siano intenzionate a seguire la via intrapresa in Turchia da Erdogan. Non si possono quindi escludere ulteriori successi per i manifestanti. Tuttavia non c’è da farsi illusioni: ancora una volta la rivoluzione sociale non è affatto dietro l’angolo. Essendosi schierata dalla parte dei manifestanti anche la Central Sindical Única (la maggiore confederazione brasiliana), nel Pt vari dirigenti cominciano a preoccuparsi per la scarsa capacità di dialogo della Rousseff – con i movimenti oltre che con i suoi stessi ministri – per il diffuso timore che il partito possa perdere una parte dei suoi appoggi elettorali (d’altra parte i sondaggi danno in calo l’indice di gradimento del governo, passato dal 63% di marzo all’attuale 55%), e vorrebbero che la Presidente affidasse a Gilberto Carvalho, Segretario Generale della Presidenza, l’incarico di trattare con i manifestanti, ma con una certa autonomia. Staremo a vedere e ne parleremo in un secondo articolo..

 

22 giugno 2013

 

 

BRASILE: LA CRISI SI AGGRAVA, LA SITUAZIONE SI COMPLICA

 

di  PIER FRANCESCO ZARCONE

 

L’attuale problema economico del Brasile

 

Nel 2012 la crescita del prodotto interno lordo brasiliano è stata del 7,5% per cento, ma si prevede che per l’anno in corso non supererà il 4%. In tutti i paesi europei si griderebbe al miracolo, ma in Brasile la cosa preoccupa per le conseguenze della decrescita. La riduzione dei consumi – dopo un periodo di eccessi e di accumuli di debiti privati – contribuisce a questo risultato, il mercato azionario non va per nulla bene e si assiste a una riduzione degli investimenti. Comunque la disoccupazione resta bassa e non è detto che per il 2014 altri 16 milioni di persone non escano dalla povertà vera e propria; l’incremento demografico è rallentato; le estrazioni di petrolio proseguono a pieno ritmo; il debito resta contenuto; tuttavia, oltre alla carenza di infrastrutture, resta la non soddisfatta esigenza di una riforma tributaria ben più equa socialmente e altresì idonea a favorire gli investimenti, a loro volta necessari per invertire la decrescita. Intanto la Banca centrale per cinque volte ha aumentato i tassi d’interesse, arrivati al 12,5%, cioè uno dei più alti al mondo. Per contro alla produzione industriale non ha giovato l’alto livello dei tassi di cambio, unitamente ai notevoli costi per il trasporto e la gestione delle merci.

 

Quel che non va in Brasile dietro la facciata di modernizzazione e maggior benessere

Nel precedente articolo sul Brasile, scritto a caldo dei primi avvenimenti, si è solo accennato ai problemi strutturali del paese, ma ora va fatto un discorso più approfondito. Si tratta del quinto paese del mondo per estensione (più di 8.500.000 km2), con un Pil superiore a 2.496 miliardi di dollari e una popolazione che va al di là dei 170 milioni di persone. Cinquant´anni fa l’economia si basava essenzialmente sull’agricoltura da esportazione, in cui operava il 70% degli abitanti rurali; oggi invece è un paese industriale (la cui produzione copre il 35% del Pil) e ad alta urbanizzazione e ad alto tasso demografico (negli ultimi 10 anni la popolazione è cresciuta cinque volte). La prospettiva di vita è di 68,6 anni; il tasso di mortalità infantile, seppure molto diminuito si attesta sul 34,6 ogni mille nati; il tasso di scolarizzazione tra i 7 e i 14 anni è arrivato al 91,2% mentre quello di analfabetismo al di sopra dei 15 anni è sceso al 14,7%; l’acqua potabile arriva al 74,2% delle abitazioni, circa il 40,3% è collegato alla rete fognaria, il 23,3% possiede una fossa biologica e il 92,9% dispone di luce elettrica; la raccolta dei rifiuti riguarda l’87,4% delle abitazioni. Tuttavia esiste ancora una grande massa di poveri, calcolata approssimativamente in ancora 54 milioni (33% della popolazione), in maggioranza nel Nordest (58%) e nel Sudest (20%).

Questa potenza macroeconomica nella graduatoria mondiale del 2013 basata sull’indice di sviluppo umano si colloca addirittura all’85º posto: si pensi che il ben più povero Portogallo sta al 43°! Le politiche di Lula e del Pt hanno obiettivamente ridotto il divario fra il 10% più ricco della popolazione e il 10% più povero, facendolo passare da 52 punti a 40 nel periodo fra il 2003 e il 2009. In questo quadro vari programmi sociali hanno aumentato i redditi dei più poveri, il salario minimo è stato fissato in 678 reais, pari a 229 euro, e la maggior parte degli impieghi creati da Lula e Rousseff godono di un salario medio di 1.000 reais (338 euro); è stato incentivato il credito alle famiglie e in definitiva la crescita deve molto alle possibilità di aumento dei consumi. Dal 2003 Lula dette il via a una crescita economica basata sull’espansione degli impieghi, su politiche sociali e su trasferimenti di reddito, ha dinamizzato il mercato interno ed ha ridotto le esclusioni sociali tirando fuori dalla povertà almeno 40 milioni di persone ed è riuscito a ricreare una classe media, pilastro delle democrazie borghesi. Quindi, in sé il bilancio non si presenterebbe affatto male. Allora cos’è che non va?

Gli accenni fatti nel precedente articolo sulle infrastrutture del paese vanno confermati, e magari aggravati.

Possiamo sintetizzare il tutto specificando meglio cosa si intende dicendo che le infrastrutture funzionano male e la gente non ne può più. In termini sommari possiamo dividere la società brasiliana in tre parti: in alto l’oligarchia (economica e politica) super-ricca, al centro la nuova cosiddetta classe media, in basso i poveri.

Per l’oligarchia funziona tutto perché essa ha i soldi per pagarsi trasporti particolari, sanità e istruzione privata, e chi più ne ha più ne metta. I problemi riguardano gli altri due settori sociali. I poveri non hanno niente e quindi i loro veri problemi riguardano la sopravvivenza quotidiana e l’ottenimento di sussidi pubblici.

Il malcontento attuale e l’ebollizione sociale riguardano soprattutto quanti stanno in mezzo e che dal punto di vista dei servizi si trovano nella stessa situazione dei poveri (non potendo certo pagarsi i servizi dei ricchi).

Per il caso emblematico dei trasporti nei centri urbani prendiamo São Paulo, la maggiore città del Brasile con 18 milioni di abitanti: un traffico infernale poiché tutti i giorni vi circolano almeno 5 milioni di auto, la benzina (il Brasile è produttore di petrolio) costa quanto in un paese che deve importarla, per il 10% della popolazione che abita nelle periferie andare al lavoro e poi tornare a casa richiede in media 4 ore giornaliere, le linee della Metropolitana sono solo 4, i mezzi pubblici sono scarsi e in quanto a comodità equivalgono ai carri bestiame, le strade sono piene di buche, il tasso di criminalità è alto, tutto l’apparato pubblico (la polizia in primo luogo) è corrotto fino al midollo, i politici pensano al 99% ad arricchirsi. In più il cittadino – lì come del resto in tutto il Brasile – deve fronteggiare l’aumento dei prezzi di alimenti e altri beni essenziali a causa dell’inflazione, la facilità di accesso al credito gli comporta indebitamento, deve assistere al fatto che le migliori produzioni brasiliane vengono esportate mentre sul mercato interno restano le merci autoctone non vendibili all’estero e per giunta è sottoposto a un carico fiscale assai pesante (arrivato al 70%) a fronte del quale ha solo la soddisfazione di pagare le imposte senza averne nulla. La consapevolezza che un ipotetico azzeramento della corruzione equivarrebbe a disporre di cifre da capogiro, utilizzabili per le politiche sociali e infrastrutturali, può solo aumentare la rabbia. E un recentissimo sondaggio rivela che lo scontento e la sfiducia verso la classe politica sono condivisi dal 75% dei cittadini.

Questa situazione diffusa ha inciso sull’atteggiamento di buona parte della popolazione “che sta in mezzo” verso le politiche sociali riguardo alla povertà praticate da Lula e Rousseff: e sono le stesse persone che all’inizio le appoggiarono, ma ora finiscono col vedere nelle masse ancora povere solo gente adagiatasi passivamente sui sussidi e sui programmi di sostegno sociale. A São Paulo nel 25% della popolazione scesa in strada a manifestare, folta era la rappresentanza delle cosiddette classi media e medio-piccola, di cui è tangibile il timore di retrocedere dal livello di benessere conseguito negli ultimi anni per l’incapacità operativa dei corrotti politici, espressosi nell’accusa rivolta loro di sambar na cara do povo (ballare il samba sulla faccia del popolo).

 

Un problema di classe … media

Il termine “classe media” è ormai entrato universalmente in uso. In Brasile addirittura organi di informazione e circoli filogovernativi hanno cominciato a proclamare trionfalmente che – grazie alle politiche del governo – nel 2014 la classe media arriverà a comprendere il 60% della popolazione. In totale sintonia è il Financial Times. Si tratta di una mistificazione ideologica che falsa la realtà per indurre a ritenere ormai innaturale la lotta di classe o si è davvero in presenza di una straordinaria innovazione sociale, nel senso che in Brasile si sarebbe invertita la tendenza all’accentuata proletarizzazione della classe media, o passaggio di settori proletari e migliori condizioni di vita?

È necessario soffermarsi un po’ sull’argomento per cercare di capire meglio di cosa stiamo parlando. Nel corso dello sviluppo del capitalismo tra la dominante classe proprietaria (semplifichiamo per semplicità) e la dominata classe non proprietaria si è inserito un ceto – detto “medio” – che per il tenore di vita, alcune proprietà di beni finali, un po’ di risparmio (depositato e/o fatto investire da apposite entità finanziarie) e a volte un certo livello di istruzione, può essere considerato un’appendice della borghesia in senso stretto (da qui anche il nome di “nuova borghesia”) mentre, per il fatto che se i suoi componenti adulti non trovano un lavoro autonomo o subordinato, la famiglia né mangia né mantiene, il suo tenore di vita è collegabile al proletariato.

In definitiva siamo sempre all’interno della generica “classe lavoratrice”. In Brasile è detta “classe C”,

comprensiva di chi è titolare di un reddito tra 2.000 e 5.000 reais (1 real vale 0,3506 euro), ha un’auto propria, una certa capacità di acquisto, spesso è proprietario della casa di abitazione e via discorrendo. In sintesi, il più delle volte non è ricco, ma benestante.

A ben guardare si tratta anche in Brasile di un grosso contenitore dal variegato contenuto, giacché ne fanno parte proletari di ieri che oggi hanno redditi più elevati, operai rurali e urbani, lavoratori nei servizi, lavoratori autonomi tra cui piccoli imprenditori nonché beneficiari di politiche assistenziali con un attuale maggior potere di acquisto.

Resta il fatto che nelle società capitalistiche – a motivo delle loro comuni strutture fondamentali – a definire una “classe” è la relazione sociale che la distingue produttivamente in base alla proprietà o meno dei mezzi di produzione. Ciò vuol dire che – ancora una volta -la maggior parte di quanti si fregiano del nome di “classe media” (e da esso pretendono di trarre una soggettiva e specifica identità sociale) in realtà – compresi tecnici, impiegati e funzionari privati, burocrati ecc. -restano pur sempre un settore privilegiato e meglio remunerato di quello che marxisticamente si chiama proletariato. Una contrapposizione con la borghesia vera e propria diventa possibile solo quando questa “classe media” si senta pregiudicata dalle scelte di essa.

Qualora, invece, si propugnasse l’identità proletariato=classe operaia in senso stretto, allora tutto quanto detto verrebbe meno. Naturalmente non possiamo qui affrontare il tema della fondatezza o meno di tale identità: va detto solo che chi scrive non l’ha mai condivisa, al contrario di quella fra proletario e salariato.

Attribuire i fatti brasiliani alla recente formazione di un classe media – come fanno i media nazionali e

stranieri – vuole dire sottintendere che se fosse dipeso dal proletariato in senso stretto non sarebbe successo nulla, essendo alla fin fine più prossimo al sottoproletariato delle favelas, avido di sussidi, che non alla decantata classe media, assurta a vero soggetto della sensibilità democratico-sociale e delle inerenti istanze di cambiamento.

 

Cosa comporta l’attuale rallentamento della crescita brasiliana

Rallentata la crescita economica, il tasso di inflazione è prossimo al 6,5%, cioè a quello che il Banco do

Brasil considera il punto massimo. Di fronte a questa situazione se il governo optasse per una politica monetaria restrittiva oppure per la riduzione della spesa pubblica produrrebbe in entrambi i casi ulteriori effetti negativi sulla crescita. Già il Banco do Brasil ha aumentato i tassi di interesse per tentare di limitare il deprezzamento della moneta nazionale (il real) sui mercati, cosa che ha causato l’aumento delle merci importate e quindi ha contribuito all’aumento dell’inflazione. Non va certo a favore dell’economia brasiliana il recente annuncio della Federal Reserve statunitense sulla cessazione per la fine dell’anno della politica di stimoli economici finora perseguita, giacché in una fase di inflazione e insieme di riduzione del ritmo di crescita l’economia brasiliana potrebbe entrare in stagflazione, cioè in una fase di elevato tasso di inflazione e basse variazioni del Pil. Se così fosse, uscirne non sarebbe né facile né breve.

D’altro canto, lasciare che deprezzamento del real aumenti comporterebbe ulteriori impennate dell’inflazione e per conseguenza riduzione del potere di acquisto nel mercato interno che è dipendente dalle importazioni. La salita dei prezzi va evitata anche perché – oltre a comportare ripercussioni sociali – farebbe entrare il paese in recessione.

Come si vede, è un bel pasticcio, aggravato dagli scarsi margini a diposizione di Dilma Rousseff in materia di bilancio dopo le folli spese sostenute e da sostenere per i grandi eventi sportivi, a meno che non si voglia aggravare l’inflazione. E secondo gli economisti un avanzo primario (cioè al netto dei pagamenti di interessi) inferiore all’1,5% porterebbe a un aumento del debito pubblico (oggi pari al 35,2% del Pil).

Un altro fattore può rendere meno agevoli le manovre economico-finanziarie di Dilma Rousseff: si tratta dell’eterogeneità politica e dalla rappresentanza di interessi differenti, della variegata coalizione che le consente di governare. La denominazione corrente la dà come coalizione di centro-sinistra, ma questo dice poco.

Oltre al Partido dos Trabalhadores (Pt) di Lula, abbiamo: il Partido do Movimento Democrático Brasileiro (Pmdb), il maggiore partito del paese, di prevalente orientamento centrista, ma alquanto variegato al suo interno (difatti è chiamato pega-tudo, prendi tutto) avendo esponenti conservatori, liberali, populisti, nazionalisti e anche ex membri del vecchio movimento guerrigliero Mr-18; il Partido Comunista do Brasil (Pcdob), ufficialmente marxista-leninista; il Partido Democrático Trabalhista (Pdt), di orientamento ufficiale laburista (vi militava Dilma Rousseff fino al 2000, anno del suo ingresso nel Pt); il Partido Republicano Brasileiro (Prb), braccio politico della settaria “chiesa” Igreja Universal do Reino de Deus; il Partido da República (Pr), sostanzialmente liberale di centro-destra; il Partido Socialista Brasileiro (Psb), socialdemocratico; il Partido Social Cristão (Psc), sostanzialmente di destra, fautore del liberalismo e dell’economia di mercato; il Partido Trabalhista Nacional (Ptn), centrista vagamente socialdemocratico.

Finché la situazione economica ha “tirato”, una certa conciliazione fra i diversi interessi è stata possibile: oggi molto meno, e questo potrebbe avere nella coalizione effetti dirompenti.

 

Società in crisi politica e ruolo del Pt

Ai problemi economici si accompagna una profonda crisi politica della cosiddetta democrazia rappresentativa, e non solo per i bassi livelli di partecipazione alle urne. Dal punto di vista sostanziale gli eletti – ai vari livelli – rappresentano solo specifici interessi personali e di gruppo; non certo quelli popolari in senso ampio.

Se si aggiungono a ciò gli elevati tassi di corruzione e di incompetenza, integriamo un po’ il quadro ma vanno anche considerati la diffusa deresponsabilizzazione politica esistente nell’elettorato e la corruzione sparsasi al suo interno, di modo che ancora esistono settori della popolazione che vanno a votare e votano Tizio o Caio solo se certi di ottenere poi qualcosa. Gli onesti e i competenti sono alquanto spiazzati in questo sistema. Oggi uno dei profili della complessità politica della società brasiliana consiste nel fatto che una parte di essa ha come referenti partiti, corporazioni, sindacati e beneficia di programmi sociali, mentre un’altra parte non ha questi referenti e questi benefici.

Nel lontano 1914 il sociologo Roberto Michels, nel suo celebre libro Sociologia del partito politico, dette un nome al noto fatto che la crescita elettorale di un partito ne promuove la burocratizzazione e la formazione al suo interno di nuove piccole borghesie le quali, una volta sorte, curano interessi propri e gestiscono i partiti in funzione di essi: parlò di “legge ferrea dell’oligarchia”. A questa situazione non è affatto sfuggito il Pt.

Nel corso della sua storia, in parallelo con la sua conquista del potere locale e federale, il nucleo dirigente e molti militanti hanno potuto effettuare un’ascesa sociale ed economica di tutto rispetto e prima inimmaginabile, unitamente alla frequentazione di un oligarchico e affaristico “bel mondo” (e relativi lussi) che in altri tempi nemmeno li avrebbe degnati di un’occhiata.

Il Pt ha conosciuto una parabola evolutiva, ma sempre nel quadro della socialdemocrazia in quanto socialdemocratico fin dai suoi esordi; solo che da socialdemocratico di sinistra è diventato negli anni ’90 socialdemocratico di destra. E di socialismo non si parla più. In Europa si è data molta considerazione alle componenti di sinistra radicale che in effetti sono sempre esistite al suo interno; ma si trattava di settori che mai hanno egemonizzato il partito e oltre tutto sono stati progressivamente oggetto di emarginazione e anche di espulsioni. Le correnti più radicali hanno costituito un’altra formazione politica, il Partido Socialista Unificado dos Trabalhadores (Psut) dominato da trotskisti o presunti tali; altre invece il Partido do Socialismo e Liberdade (Psol). Il processo di istituzionalizzazione e moderatismo del Pt ha poi portato nel 2002 all’alleanza addirittura con formazioni di destra, tanto che oggi definirlo nemico del neoliberalismo sarebbe del tutto fuori luogo.

I meriti precedentemente conseguiti col miglioramento della posizione sociale di milioni di brasiliani sono innegabili, ma fanno parte di un passato sia pure recente. Oggi al Pt si imputano una corruzione inaspettata ed enorme, insieme all’arresto delle capacità di proseguire con politiche sociali innovative, particolarmente nell’importante settore delle infrastrutture. Nei settori che hanno beneficiato delle precedenti politiche sociali i miglioramenti conseguiti non hanno precluso la possibilità di guardare criticamente a una situazione generale del paese che le tocca in modo diretto. Quando in Brasile si dice che esso “é um dos poucos países do mundo que tira dos pobres para dar aos ricos” ci si riferisce alla perpetuazione di un andazzo tradizionale a fronte dal quale resta il fatto della carenza di strutture educative adeguate, di inferno quotidiano dei trasporti, di mala sanità, di corruzione e delinquenza. I soldi ci sono, ma sono deviati verso i “soliti noti”.

Il Pt non è un partito proletario (ammesso che l’espressione significhi ancora qualcosa): in realtà è legato a una frazione della borghesia interna che non ha condiviso in toto le politiche neoliberali avviate alla fine degli anni ’80 da Collor de Mello ed epigoni. Non che questa parte della borghesia non apprezzasse il neoliberalismo in materia di riduzione dei benefici sociali o di privatizzazioni, ma per i propri interessi era contraria alle aperture commerciali verso l’estero. Va tenuto presente che in Brasile sotto un determinato punto di vista esistono due settori della borghesia: la neoliberale legata al capitale finanziario internazionale, fautrice di cambi sostenuti, regolare pagamento del debito, alti tassi di interessi ed equilibrio nei conti pubblici; l’altro settore invece ha interesse al deprezzamento dei cambi, ai bassi tassi di investimento e a una politica di investimenti pubblici nelle infrastrutture. Ambedue questi settori hanno potere nella società e a livello federale, ma solo il secondo fa parte del blocco sociale che ha nel Pt il referente politico.

Il Pt si è ben presto collegato con questa fazione della borghesia, e fin dall’elezione di Lula ne ha favorito gli interessi, cominciando col neutralizzare il capitale internazionale nel paese. Politica proseguita da Dilma Rousseff con la protezione commerciale, la priorità alla produzione nazionale e la svalorizzazione dei cambi.

Sul piano strettamente sociale il Pt ha dovuto affrontare il problema della grande massa di lavoratori marginalizzati, anche perché fanno parte dell’elettorato, sottoproletari compresi. Si tratta di un bacino sociale per nulla rivoluzionario, e le sue componenti che possono essere state attratte dai discorsi sul socialismo l’hanno fatto in base a quello che Vladimir Solovëv chiamò “socialismo dell’invidia”. Lo scontento non era contro il sistema, ma per il mero fatto dell’esclusione con l’obiettivo dell’integrazione nel sistema stesso. Le politiche di Lula e Rousseff hanno realizzato questa integrazione per una consistente parte della popolazione emarginata, trasformandola beneficiaria di parte della redistribuzione dei redditi, tuttavia inglobandola in un progetto politico di cui è parte primaria la borghesia di cui il Pt è referente, e che più specificamente comprende la borghesia mineraria, navale, agropecuaria e delle costruzioni civili. La borghesia bancaria invece non ha interessi

omogenei, giacché una parte sta con la borghesia che in Brasile chiamano “lulista”, e un’altra parte invece condivide gli interessi del capitale finanziario internazionale. I commentatori brasiliani non allineati evidenziano come la redistribuzione in favore dei più poveri abbia portato a grandi guadagni per la borghesia lulista: un caso tipico è quello del settore del credito.

Ovviamente Lula e Rousseff hanno abbandonato le precedenti pratiche di criminalizzazione dei movimenti sociali e di ostilità ai sindacati, ed hanno riposizionato il ruolo dei sindacati riconoscendo la legittimità della loro azione e delle loro rivendicazioni, di modo che molti salari sono aumentati più dell’inflazione grazie anche alla pratica degli accordi collettivi. Il Pt ha anche legato a sé una parte del mondo contadino – quello che in Brasile chiamano “campesinato remediado”, cioè che ha i mezzi per vivere. Diverso il discorso per i contadini poveri, tanto più che la politica di espropriazioni terriere è stata ormai fermata e per essi prosegue lo stato di marginalità.

 

La lettera aperta dei movimenti sociali a Dilma Rousseff

Di recente una trentina di movimenti sociali hanno rivolto alla Presidentessa una lettera aperta che vale la pena di riprodurre nei suoi contenuti fondamentali:

«(…) È questa resistenza popolare che ha reso possibili i risultati elettorali del 2002, 2006 e 2010. Il nostro popolo, insoddisfatto delle misure neoliberali, ha votato a favore di un progetto diverso. La sua realizzazione si è dovuta confrontare con la grande resistenza principalmente del capitale e dei settori neoliberali che continuano ad avere forza nella società. Ma ha dovuto affrontare anche i limiti imposti dagli alleati dell’ultima ora, una borghesia interna che nella disputa sulle politiche di governo impedisce la realizzazione di riforme strutturali, come è il caso della riforma urbana e del trasporto pubblico. La crisi internazionale ha bloccato la crescita e con essa la continuità del progetto che ha permesso questo grande fronte che, finora, ha sostenuto il governo. Le recenti mobilitazioni hanno come protagonisti ampi settori della gioventù che per la prima volta partecipa a delle mobilitazioni. Questo processo educa i partecipanti permettendo loro di percepire la necessità di affrontare coloro che impediscono che il Brasile avanzi nel processo di democratizzazione della ricchezza, dell’accesso alla sanità, all’istruzione, alla terra, alla cultura, alla partecipazione politica, ai mezzi di comunicazione. Settori conservatori della società cercano di appropriarsi del senso di queste manifestazioni.

I mezzi di comunicazione cercano di caratterizzare il movimento come anti-Dilma, contro la corruzione

dei politici, contro gli sperperi pubblici e altre questioni che impongano il ritorno del neoliberalismo.

Crediamo che le questioni siano molte, come pure le opinioni e le visioni del mondo presenti nella società.

Ma si tratta di un grido di indignazione di un popolo storicamente escluso dalla vita politica nazionale e abituato

a vedere la politica come qualcosa di dannoso per la società. (…) Il momento è propizio affinché il governo faccia avanzare le questioni democratiche e popolari e stimoli la partecipazione e la politicizzazione della società. (…) Speriamo che l’attuale governo scelga di governare col popolo e non contro esso».

 

 

 

Entrambi gli articoli sono stati tratti da www.utopiarossa.blogspot.com/ e inoltrati da Dino Erba

 

1 comment for “BRASILE: TRA “MIRACOLO” E CRISI

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