È questo l’unico mondo possibile?

Quando la crisi mette a nudo i catastrofici limiti del capitalismo,

ecco farsi avanti medici interessati,

fautori dell’accanimento terapeutico.

Ma, se l’economia del capitale sta male, non è forse meglio che muoia…

I governi si limitano a pregare perché arrivi una forte ripresa:

preferiscono optare per l’illusione perché la realtà è troppo cupa.

Stephen King, chif economist Hsbc,

«New York Times», 6 ottobre 2013.

S’intitola Inequality for All (Diseguaglianza per tutti) il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale cinematografiche degli Stati Uniti d’America le lezioni universitarie in cui Robert Reich (docente all’università di Berkeley ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton) denuncia gli effetti sociali devastanti dell’accentuazione della diseguaglianza che si è verificata negli Usa: un fossato tra i ricchi e il resto della società di una profondità mai vista dagli anni Venti del Novecento (1).

È un fenomeno che riguarda tutto il mondo, basta scorrere il Coefficiente di Gini che rileva le sperequazioni nei vari Paesi (2). Ovviamente, la crescente sperequazione ha conseguenze differenti in un Paese di vecchia industrializzazione (area Ocse) come gli Stati Uniti, rispetto a un Paese cosiddetto in via di sviluppo come il Brasile. Le differenze comportano anche una differente percezione della povertà: nell’immaginario collettivo nord americano la povertà è rimossa; in quello brasiliano è incombente. Ma proprio per questo motivo, i mutamenti in atto possono comportare effetti più marcati negli Stati Uniti. Come? Lo scenario che si profila, non preoccupa solo democratici fautori del Welfare State (Obamacare), preoccupa anche conservatori come Tyler Cowen, economista della George Mason University. Nel suo saggio Average is Over (che potremmo tradurre: il danno è fatto), prevede la drastica riduzione, se non la scomparsa, dei ceti medi, di cui il 10/15% migliorerà la propria posizione sociale, mentre la gran massa scenderà ai livelli bassi della società.

Prima di entrare nel merito della questione, è bene precisare che negli Usa si intende per «ceti medi» quell’ampio e generico insieme di lavoratori (produttivi e improduttivi, liberi professionisti e operai …) che sono accomunati da un tenore di vita «medio», ovvero hanno un accesso crescente ai consumi. Per capirci, il termine di riferimento è il consumo, non la produzione. Comunque sia, questa situazione si verificò esemplarmente alla metà del Novecento (con la cosiddetta società dei consumi), dopo di che iniziò la parabola discendente. Cui il crash attuale ha impresso una forte accelerazione.

Secondo Noah Smith (Michigan University), alle soglie del Ventunesimo secolo, la quota di «ricchezza» (il Pil, per intenderci) destinata ai salari è scesa dal 75% al 60%, a vantaggio della quota destinata ai «redditi da capitale» (i profitti) (3).Come altri analisti americani, Smith vede la causa del regresso dei redditi da lavoro nell’automazione, o meglio nell’informatizzazione che, facendo proprie le capacità cognitive umane, rende obsoleto l’uomo. Con buona pace dei lavoratori del «cognitariato», destinati a far la fine dei cavalli, di fronte al cavallo-vapore … Ma queste sono stupidaggini. Le cause del regresso non risiedono certo nelle innovazioni tecnologiche che, semmai, sono la conseguenza del processo di accumulazione del capitale: do you remember la caduta tendenziale del saggio di profitto, in cui si scatenano e si consumano le innovazioni tecnologiche.

La miseria crescente è una legge storica

Quanto sta avvenendo negli Usa e nel Mondo conferma la tendenza alla miseria crescente, insita nel modo di produzione capitalistico. L’aveva prevista quella buon anima di Marx (4). Anzi, l’aveva addirittura definita una «legge»! Legge, che i successivi sviluppi sembrarono smentire, dando la stura a illazioni teoriche su cui i partiti di massa, di sinistra (socialdemocratici e nazionalcomunisti) e di destra (fascisti), costruirono le proprie fortune politiche, in nome di quello che divenne il Welfare State. In entrambi i casi, l’orizzonte sociale non andava oltre ai confini della nazione, alimentando inevitabilmente conflitti esterni, prima commerciali e poi militari. Ma su questo sgradevole aspetto, fu steso un velo pietoso.

Alla fine dell’Ottocento, il modo di produzione capitalistico visse la sua stagione di sviluppo, che si protrasse per buona parte del Novecento. Sappiamo di quante e quali lacrime e sangue abbia grondato, e grondi, quello sviluppo e quel progresso … Per restare in Europa, il prezzo furono violenti sconvolgimenti che eliminarono i vecchi ceti medi produttivi, i contadini e gli artigiani. Ne crearono però di nuovi, improduttivi, legati alla crescente industrializzazione, sia sotto il profilo produttivo (tecnici) sia sotto il profilo amministrativo (impiegati nonché manager e … magnaccia). Proliferarono le nuove professioni, legate alla circolazione delle merci … amministrazione, logistica, pubblicità … Emersero i cosiddetti ceti medi emergenti che, secondo specifiche circostanze contingenti, furono la base sociale della socialdemocrazia o del fascismo

In sostanza, ci fu un processo di proletarizzazione, in cui la dinamica dello sviluppo economico determinò una crescente stratificazione sociale, favorendo un movimento ascendente, funzionale ai nuovi assetti generati dal modo di produzione capitalistico. I livelli bassi erano comunque appetibili per gli immigrati, interni ed esterni che, espulsi dalle campagne, trovavano pur sempre scampo a condizioni di miseria nera.

Nel corso dei decenni, il processo di proletarizzazione e di nascita dei ceti medi emergenti ha avuto un andamento discontinuo, differenziato da Paese a Paese e fu assai contraddittorio nelle aree economicamente più deboli.

Oggi, gli ultimi fasti dei ceti emergenti si stano consumando nei Paesi di nuova industrializzazione, come il Brasile e la Turchia. Dove, dopo una breve e illusoria stagione di crescita economica, l’amaro riflusso delle aspettative ha provocato le sommosse degli scorsi mesi, e tutt’ora vive.

Secondo Cowen, in America, e a maggior ragione nel resto del «ricco» Occidente, una grande massa di cittadini dovrà imparare a vivere in modo «austero e frugale».Mentre la memoria del mezzo secolo di rapida crescita, welfare generoso e prosperità si appannerà sempre più, fino a quando quell’epoca sarà catalogata come una sorta di incidente della storia, felice ma insostenibile. Prevarrà allora una società ipermeritocratica, competitiva a tutti i livelli. Come se competitività e concorrenza non fossero all’origine dello sfascio attuale(ancora una volta: do you remember la caduta tendenziale del saggio di profitto …).

Una felice decrescita

All’american struggle for life, l’Europa contrappone modelli apparentemente più «umani», come la «decrescita felice» di Serge Latouche (5).In parole povere, la miseria diffusa, sì, ma condivisa. In realtà, è una soluzione fantozziana, peggiore dell’ipercompetitvità americana che, perlomeno, ha il pregio di parlar chiaro. E, soprattutto, prospetta una situazione dinamica che corrisponde alla realtà capitalistica. Senza tanti bigotti orpelli.

La decrescita felice non può fermare la polarizzazione della ricchezza e non può neppure evitare la stratificazione sociale, verso il basso. Può solo assecondare queste tendenze, creando un consenso che, come vecchia consuetudine, può essere condiviso,e soprattutto gestito, da quegli strati di ceto medio i cui destini sono particolarmente legati a quelli del capitale. Sono ambienti sociali ben radicati nei Paesi cosiddetti ricchi ma anche in quelli poveri; sono figli dello statalismo, da cui deriva la loro fonte di sostentamento, direttamente (pubblico impiego) o indirettamente (il clientelismo imprenditoriale e professionale). La fonte statale si è parecchio inaridita sotto i colpi della deregulation, ma è pur sempre viva. Motivo per cui, per non perdere del tutto i passati privilegi, il medioceto statalista vagheggia un capitale «riformato», più sociale, più umano, più giusto … grazie allo Stato. Ovviamente. La «sinistra» ecologista è il terreno di cultura ideologico di questo presunto capitale dal «volto umano» che diverrebbe tale promuovendo la gestione «intelligente» delle risorse, la lotta agli sprechi, il risparmio energetico. C’è pure la sacrosanta contestazione delle grandi opere, come Tav, Expo, Olimpiadi ecc. ecc.

Tutte belle parole, ma assolutamente prive di un possibile riscontro nella realtà attuale, se non quello di indorare la pillola amara della decrescita e quindi dei sacrifici. Nella società capitalista, decrescita non significa altro che decrescita, ovvero peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, ovvero tirar la cinghia. Stando così le cose, anche i reiterati inviti al risparmio energetico e alla difesa ambientale (sviluppo sostenibile) non fanno altro che nascondere il lato oscuro di un sistema fondato sulla dissipazione e sulla distruzione delle risorse umane e naturali.

Ciò nonostante, non stupisce che la musica di Latouche & Co. abbia sedotto molti proletari italiani, con l’illusione che sia possibile spalmare i sacrifici, coinvolgendo anche i «ricchi», anzi, facendo pagare la crisi ai padroni. Obiettivo sacrosanto, ma del tutto aleatorio finché i padroni hanno il potere. E non lo mollano certo per la bella faccia di Latouche. Che peraltro,il potere, non lo mette neppure in discussione, al lui, per creare un nuovo ed equo ordine economico, basta andare in bicicletta, buttare via la Tv e non mangiar carne (allevata) …

La sinistra ecologista europea, chiusa com’è nella gretta logica del capitalismo e della nazione, svela subito i suoi tratti reazionari (e per certi versi criminali), su un terreno in cui collude allegramente con la Nuova Destra europea (6) e, uscendo dall’Europa, con l’islamismo politico. Per inciso, entrambi, Nuova Destra e islamismo politico, hanno almeno il pregio di proclamare un fragoroso anticapitalismo, cui fa da sponda il populismo bolivariano degli eredi di Chávez. Ma non basta essere anticapitalisti … anche il Duce era anticapitalista. A parole.

Di fronte alla zuppa mal riscaldata del capitalismo riformato, sarebbe bene domandarsi se il mondo capitalista sia l’unico possibile.

Una parodia di capitalismo

Via via che la crisi ha messo a nudo i limiti del modo di produzione capitalistico, sono appassiteanche le mitologie che lo hanno accompagnato. Tra queste mitologie, particolarmente dura a morire è la tesi (il dogma!) che il modo di produzione capitalistico sia prevalente e dominante a livello mondiale. In realtà è solo dominante, ma non prevalente. Cosa significa? Facciamo un bel passo indietro, per andare alle origini del dogma.

Nel 1879,esaminando il decollo capitalistico della Russia, Marx disse che gli sembrava più che altro una «scenografia capitalista», una «parodia» (o una «satira») del capitalismo (7). Nel 1895, Engels affermò che la Russia era un paese «dove la grande industria moderna è stata innestata sulla comune rurale primitiva e in cui allo stesso tempo tutti gli stadi intermedi della civiltà coesistono l’uno accanto all’altro […]» (8).

Non solo. Nella famosa lettera a Vera Zasulic dell’8 marzo 1881, Marx dichiarò chiaramente che i suoi studi sull’origine del modo di produzione capitalistico (Il Capitale, per intenderci) riguardavano esclusivamente l’Europa occidentale, dove si era imposta da tempo la proprietà privata della terra e quindi la separazione del produttore dai mezzi di produzione, presupposti per la nascita del modo di produzione capitalistico (9).

Marx ed Engels,pur non escludendo la possibilità di uno sviluppo capitalistico in Russia, ne mettevano in luce tutti gli ostacoli, lasciando sottinteso che sarebbe stato comunque un parto assai travagliato, foriero, sul piano delle future relazioni economiche,disquilibri che ne avrebbero aggravato le «debolezze» congenite. E senza mezzi termini avanzavano l’ipotesi che sarebbe stato meglio«saltare» la fase capitalistica.

In Russia e in altre aree precapitalistiche, a prescindere dalle «rapine» coloniali e dalle ingerenze imperialiste,la diffusione del modo di produzione capitalistico(«il trapianto o l’innesto») – come tra gli altri avrebbe rilevato Korsch (10) nel 1938 – ha fatto degenerare, atrofizzare e distorcere i modi produzione preesistenti che via via esso incontrava. E non certo a causa di una presunta «arretratezza» che, invece, è stata il frutto marcio del «trapianto del capitalismo», anche se apparentemente il trapianto era andato a buon fine. Come dicono certi medici: l’operazione è riuscita ma il paziente è morto.

Non basta costruire fabbriche per dire capitalismo, occorre che ci sia un ambiente sociale favorevole o per lo meno non ostile. Nell’Europa occidentale, queste condizioni favorevoli si sono formate nel corso dei secoli, se non dei millenni.

Il capitalismo cresciuto in serra calda genera mostri

Alla fine dell’Ottocento, in Russia come in Europa, prevalse una concezione evoluzionista (sviluppo storico lineare),secondo la quale il passaggio al capitalismo era ritenuto inevitabile per la successiva transizione al socialismo. E se il modo di produzione capitalistico fosse stato assente o fosse stato debole, bisognava favorirlo, come fecero i partiti socialdemocratici, oppure bisognava vitalizzarlo (o magari «crearlo»), come fece Lenin, sviluppando la tattica politica della «doppia rivoluzione», borghese e proletaria. Dopo l’Ottobre sovietico, la«doppia rivoluzione» diventò il modello bolscevico «esportabile» in aree palesemente precapitalistiche, dove ancora prevaleva o dominava la proprietà comune della terra: Cina, India, Africa …, ovviamente erano previsti aggiustamenti che però mai si mostrarono all’altezza delle aspettative socialiste.

Se le aspettative socialiste furono deluse, ciò non toglie che a metà del Ventesimo secolo qualche frutto sul piano dello sviluppo economico ci fu. La crescita avvenne sulla scia dell’eccezionale boom capitalistico post bellico, le cui ricadute si riverberarono a livello mondiale. Fu uno sviluppo che durante la decolonizzazione (anni Sessanta) alimentò molte illusioni, dall’India all’Egitto, con la prospettiva di uno sviluppo «autocentrato», grazie allo statalismo spacciato per socialismo. Grazie al protezionismo statale, in molti paesi il capitalismo poté allora fiorire, come in una serra calda. Con il crollo del muro (1989) e la globalizzazione, questa fase felice è tramontata. Dopo di che, il capitalismo cresciuto in una serra calda ha iniziato a generar mostri.

Ancor prima del crash, in alcuni Paesi (per fare due esempi molto diversi:Algeria e Jugoslavia) veniva meno l’effetto propulsivo del trapianto capitalistico che, però, aveva già rovinato irreparabilmente i precedenti modi di produzione self-soustaining, autosufficienti, in grado di autosostenersi, in cui il surplus prodotto rientrava sia nel consumo interno sia per la riproduzione del sistema, come spiegava Marx a proposito del modo di produzione asiatico (11). Distrutta questa situazione preesistente e venuta meno l’effimera spinta propulsiva del capitale, ne è conseguita prima la stagnazione poi la regressione, entrambe accompagnate da dissesti economici e dilaganti tensioni sociali.

Le anime belle della sinistra democratica occidentale si scandalizzano vedendo il gran guazzabuglio (12) politico-ideologico che connota le agitazioni sociali del Nord Africa, del Medio Oriente … dell’Africa subsahariana in cui invano cercherebbero spunti loro graditi. Ma non può avvenire diversamente, in società dove passato e presente sono finiti in un vicolo cieco e oggi annaspano come pesci fuor d’acqua, provocando ulteriori disastri, in uno scenario di disgregazione e rovina. Da parte loro, i Paesi capitalisti degni di questo nome ci mettono del loro, seminando zizzania. Possono solo generare altri mostri, provocando catastrofi che, inevitabilmente, li coinvolgeranno sempre più da vicino.

Di fronte a questa cupa prospettiva, perdono ogni credibilità quelle proposte politiche che conservano una pur pallida patina occidentale di sviluppo-progresso-democrazia e … libertà, ancorché in odor di «marxismo». Sono proposte che rivelano tutta la natura razzista insita nel modo di produzione capitalistico. Che non è l’unico mondo possibile …

Dino Erba, Milano, 22 ottobre 2013

Note:

1) Massimo Gaggi, Le due società, senza vie di mezzo, «La Lettura», 13 ottobre 2013, p. 4.

2) Vedi anche: Antonio Pagliarone, La polarizzazione delle società industriali avanzate ovvero la de-integrazione (www.countdowninfo.net/).

3) Noah Smith, The End of Labor: How to Protect Workers From the Rise of Robots, «The Atlantic», 14 gennaio 2013.

4) Aa. Vv., La legge della miseria crescente, «N+1», n. 20, dicembre 2006 (www.quinterna.org/pubblicazioni/rivista/20/rivista_20_completa.p/).

5) Serge Latouche è ormai di casa in Italia. Dopo il tour dello scorso gennaio, è tornato per presentare l’edizione italiana del suo ultimo libro: Incontri di un «obiettore di crescita», Jaca Book, Milano, 2013.

6) Vedi per esempio: Alain de Benoist, Comunità e decrescita. Critica della ragion mercantile dal sistema dei consumi globali alla civiltà dell’economia globale, Arianna Editrice, Bologna, 2005.

7) Marx a Danielson, 10 aprile 1879, in Marx/Engels Collected Works, ME. 1874-1878, Letters, Vol. 45, p. 335.

8) Lettera di Engels a Georgi Plekhanov, 26 febbraio 1895, Corrispondenza con personaggi politici russi, Ed. russa, 1951, p. 341, ora anche in: Marx/Engels Collected Works, E. 1892-1895, Letters, Vol. 50, p. 449-551.

9) Karl Marx a Vera Zasulic, Londra, 8 marzo 1881, in Karl Marx  e Friedrich Engels, India, Cina, Russia, Prefazione, traduzione e note di Bruno Maffi, Il Saggiatore, Firenze, 1965, p. 237.

10) Karl Korsch, Karl Marx, Introduzione di Giuseppe Bedeschi, Laterza, Bari, 1977, pp. 29-35.

11) Karl Marx, Fondements de la critique de l’économie politique (Grundrisse der Kritik der Politischen Ökonomie), Traduit par Roger Dangeville, Editions Anthropos, Paris, 1968, vol. I, pp. 437-438, 448, 456.

12) The most incredible and queer combinations of ideas, è scritto nella traduzione inglese della citata lettera di Engels a Plekhanov (vedi nota 8).

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