ANCORA CLASSE E NAZIONE: DALLA RESISTENZA OPERAIA ALLA CGIL UNITARIA

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Il 25 luglio 1943 suscita speranze. Gli operai assediano le sedi fasciste. In Valdarno i minatori inscenano una spontanea manifestazione antifascista. Seguiranno oltre sessanta denunce al tribunale militare per i reati di astensione dal lavoro e sobillazione[1]. Il libero associazionismo popolare riprende quota dopo aver attraversato come un fiume carsico l’intero ventennio. I lavoratori eleggono le loro rappresentanze. Il ripristino delle libertà sindacali è il primo atto per affermare un radicale cambiamento nella dialettica territoriale fra le parti sociali. Nell’estate ‘43 una commissione di minatori prende in mano l’organizzazione produttiva. Subito si affrontano le urgenze: i trasporti collettivi verso il luogo di lavoro, i cottimi e gli orari.

Dopo l’8 settembre iniziano le rappresaglie sindacali mentre si organizza la lotta partigiana. Gli industriali denunciano gli accordi conseguiti. Con l’avvento della RSI si accentuano le iniziative locali di autodifesa contro l’apparato politico amministrativo repubblicano fascista, contro l’occupante tedesco. Nel gennaio 1944 “quattro sconosciuti armati” fermano un’autovettura della Mineraria impossessandosi dei valori. Il questore di Arezzo fa inviare in loco reparti motorizzati[2]. Le agitazioni fra i tremila addetti del bacino lignitifero preoccupano i tedeschi che, nel frattempo, hanno assunto il controllo diretto della produzione. Decisiva la mediazione fascista per mantenere la protesta nei limiti rivendicativi economici. Gli scioperi del marzo[3], che coinvolgono anche gli operai dell’ILVA, paralizzano il Valdarno. Alla fine, a seguito dell’intervento del capo della provincia Rao Torres che si incontra a Castelnuovo con commissione operaia e direzione delle miniere, si stabilisce che gli accordi dovranno essere rispettati. Da quel momento però, su indicazione del CLN, i minatori membri della commissione si danno alla macchia e si decide di attuare il sabotaggio.

Ci sarà però un nuovo incontro ‘triangolare’ (in prefettura ad Arezzo) nel corso del quale la delegazione operaia (Libero Santoni e Bruno Beccastrini) ottiene l’abolizione degli esoneri[4]. Il dato saliente di questo passaggio è che la rappresentanza dei minatori, sorta autonomamente e palesatasi dopo il 25 luglio, continua a svolgere la sua funzione semipubblica godendo del riconoscimento di fatto della RSI. Le cui autorità indugiano, tedeschi permettendo, in inusitati atteggiamenti di apertura. Di diverso avviso i padroni delle miniere che di contrattazione locale non vogliono sapere.

La vocazione anticapitalistica del sindacalismo fascista repubblicano non trova modo di esprimersi. Il richiamo alle origini non funziona: per l’accentuata subalternità verso gli occupanti; perché le strutture preposte alle relazioni industriali in sede aziendale e territoriale sono state distrutte venti anni prima; per la sfiducia dei lavoratori verso un sindacato organo di “polizia economica”. Il nuovo ministro dell’Economia Corporativa, Angiolo Tarchi già presidente nazionale della Federazione dei lavoratori industrie estrattive ed estensore di articolate proposte di politica energetica per il Valdarno[5], non ha gli strumenti né dispone del necessario contesto per attuare il programma demagogico della nuova repubblica del lavoro[6].

Il programma anticapitalistico fascista di “socializzazione” viene osteggiato dalle autorità germaniche che non tollerano ostacoli alla produzione di guerra. D’altra parte la perdita di Roma accentua la propensione tedesca a controllare la vita economica della RSI. Così si attua un programma di “pianificazione” che, prevedendo una severa vigilanza sui principali nodi industriali, si traduce in saccheggio sistematico con requisizioni e trasferimenti degli impianti in Germania.

Il comando germanico recapita alle industrie la “Dichiarazione di stabilimento protetto”, che attesta la dipendenza dal Reich degli impianti industriali, vieta “qualsiasi atto possa menomare l’attività dello stabilimento”, ribadisce la sua assoluta competenza su andamento produttivo, licenziamenti e gestione del personale[7].

Nell’Aretino la guerra lascia macerie e distruzioni, vittime di stragi nazifasciste e di bombardamenti alleati, di campi di concentramento fascisti e badogliani. Gravi i danni alla Sacfem e a tutto l’assetto produttivo locale. Con la Liberazione (16 luglio 1944) s’inaugura la fase interminabile del “pre-dopoguerra” aretino. In tutto il variegato territorio provinciale, il sindacato partecipa alla ricostruzione, soggetto del cambiamento socioeconomico.

La transizione è convulsa, le condizioni di lavoro legate all’emergenza. Così si susseguono, senza soluzione di continuità, le ultime circolari di Rao Torres sugli internati in Germania e le statistiche sugli sfollati commissionate dal Comando militare alleato (AMG), gli avvisi dei CLN locali per il reclutamento degli operai. Ad Arezzo gli Alleati costituiscono un ufficio di collocamento (in via Tolletta n. 13). L’attività sindacale, insieme a quella politica, nonostante il divieto di riunione imposto dall’AMG, riprende dai luoghi di lavoro[8].

La CGIL / Camera Confederale della Provincia di Arezzo, in data 22 agosto 1944, fa la sua prima uscita. Pubblica un manifesto / appello ai lavoratori dell’Aretino, redatto secondo le direttive del Patto di Roma, per: la difesa degli interessi “urgenti”, la riorganizzazione dei sindacati, il sostegno alla guerra di liberazione, la ricostruzione del paese, la rivendicazione del patrimonio già appartenente ai sindacati fascisti[9].

La nuova CGIL “unitaria” opera per condurre le masse nello Stato. Il rapporto identità nazionale / identità di classe assume enorme rilevanza, perfino nella sigla, dove si aggiunge la “I” di Italiana all’antica denominazione. I conflitti di lavoro sono il terreno unificante di questo rinnovato soggetto politico sociale, sintesi di varie culture sindacali (socialcomuniste, cristiano sociali, sindacaliste nazionali, anarcosindacaliste, ecc…). Con la democrazia i sindacati si fanno organizzazione generale di rappresentanza. I comuni intrattengono ora rapporti di natura istituzionale con le camere del lavoro, consultate se non coinvolte nell’attività di governo[10].

La fase confederale unitaria e ‘politica’ della CGIL – che si protrae fino al 1947/’48 – trova i suoi fondamenti nella contrapposizione all’esperienza degli anni Trenta. La CGIL, punto di riferimento in un contesto disgregato, è il contraente storico del compromesso, dalla ricostruzione al patto istituzionale. Emerge in questo periodo un modello di sindacato democratico, mutuato dagli Alleati, inconciliabile con il sindacalismo di classe, nazionale antifascista, nel quale piuttosto si riconoscono i dirigenti storici del movimento operaio. Non si tratterà comunque, data la peculiare realtà socio-politica del paese, di acquisizione tout court del modello anglosassone. Esso, piuttosto, si preciserà in forma inedita -“neocorporativa democratica”, contrapposta a quella neoliberale- su tre linee essenziali: rinascita di una organizzazione non solo verticale di categoria ma anche territoriale politicizzata; riassetto del collocamento attraverso la rottura degli schemi burocratici fascisti e la fluidificazione della forza-lavoro; funzione arbitrale e conciliazione delle vertenze in sede aziendale. Lo Stato restaura la propria autorità democratica attraverso le istituzioni di massa, cui cede poteri delegati in materia sociale ed economica. In cambio il sindacato confederale rinuncia a porsi come forza potenzialmente ‘sovversiva’[11].

Con la legge 23 novembre 1944, n.369, è abolito l’ordinamento corporativo, sciolti i sindacati preesistenti. Restano in vigore i contratti a validità erga omnes già sottoscritti, le norme contenute negli accordi economici, nelle sentenze della Magistratura del lavoro, nelle ordinanze corporative. Il contratto nazionale di categoria con valore di legge resta il vero elemento di continuità tra regime fascista e sistema democratico.

Le nuove relazioni sindacali si stabiliscono su impulso del Governo militare alleato. Il quale, già dal settembre 1944, emana ordinanze su salari e indennità carovita cui si adeguano le associazioni provinciali degli industriali[12].

Le camere del lavoro di Arezzo e Valdarno si riuniscono in un’unica struttura con 30.000 aderenti; nel comitato provvisorio: tre comunisti (Manlio Trippi, Giuseppe Monticini, Mario Mari), un socialista (Gino Sadocchi), un azionista (Giovanni Bianchi), un democristiano (Astodonte Aglietti), un anarchico (Attilio Sassi)[13].

Con l’accordo CGIL – Confindustria del 14 febbraio 1945, sottoscritto presso l’Ufficio provinciale del lavoro di Arezzo, si stabilisce la competenza esclusiva degli organismi territoriali nella contrattazione[14]. Fra le materie oggetto di concertazione: compensi straordinari per i licenziati politici e per chi ha partecipato alla lotta armata; criteri per i licenziamenti nelle aziende danneggiate dal passaggio del fronte.

Amor patrio e solidarietà: l’obiettivo lanciato dalla CGIL unitaria è “suscitare la febbre del lavoro, l’entusiasmo delle masse lavoratrici nello sforzo produttivo”[15].

La commistione, tipica di questa fase convulsa, tra attività amministrativa, sindacale e politica caratterizza l’impegno sociale della nuova classe dirigente sorta dall’antifascismo. Ricostruzione economica e ripresa industriale sono gli obiettivi su cui viene indirizzato un movimento operaio ora fattosi garante del supremo interesse della Nazione.


[1] Cfr. G. Galli, Arezzo e la sua provincia…cit., pp. 523-4.

[2] ACS, Ministero dell’Interno, RSI, 1944-45, b. 2, Arezzo, relazione al Capo della Polizia del 15/4/1944.

[3] Cfr. L. Santoni, Dal buio della miniera alla luce della libertà. L’antifascismo e la Resistenza nel Comune di Caviglia e nel bacino lignitifero del Valdarno, a cura di A. Santoni, Milano, Vangelista , 1986, pp. 17 sgg.

[4] L. Santoni, Dal buio della miniera…, cit., p.32.

[5] Tarchi svolge il ruolo di raccordo per gli affari ‘sindacali’ fra Mussolini e le autorità tedesche. Cfr. Appunto al Duce del ministro per l’Economia Corporativa, Angelo Tarchi sui colloqui con i generali Leyers e Zimmermann (7 gennaio 1944), in ACS, RSI, PDC, 568, b. 85, fasc. 657/1.

[6] Cfr. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia (1943-1945), Torino, Bollati Boringhieri, 1993.

[7] Corpo delle Miniere, Firenze (CMF), posiz. 56/33, Arezzo, Le Carpinete I, rapporti e relazioni, Dichiarazione di stabilimento protetto, s.d.

[8] Asca, cg, b. 1365, 14.1.1/1944 (“Affari diversi”); Ibidem, 15.5.2 (“Pregiudicati, ammoniti, sorvegliati, espulsi dall’estero, oziosi, vagabondi, profughi, internati, confinati, sfollandi, ecc.”); Ibidem, 15.6 (“Riunioni pubbliche, scioperi, processioni”).

[9] Asca, cg, b. 1365, 15.6/1944.

[10] Cfr. P. Neglie, Il sindacato nel dopoguerra: autonomia, conflitto e partecipazione, sta in: Fonti per la storia del movimento sindacale in Italia, Atti del convegno (Roma, 16-17 marzo 1995), “Quaderni della Rassegna degli Archivi di Stato”, 79, Ministero per i beni culturali e ambientali – Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma, 1997, pp. 53-61.

[11] Cfr. A. Pepe, Il sistema sindacale tra modelli esterni e legittimazione costituzionale, in P. Iuso (a cura di), Lezioni sul secondo dopoguerra, Roma, Gangemi, 1994; S. Rogari, Sindacati e imprenditori. Le relazioni industriali in Italia dalla caduta del fascismo a oggi, Firenze, Felice Le Monnier, 2000, pp.27-50.

[12] Cfr. ASEF, SMV, “Documentazione attività sindacali delle organizzazioni dei minatori, 1945-1949”; Ivi: “Associazione degli Industriali della provincia di Arezzo. Notiziario”, n. 1 / 1945, ciclostilato, pp. 15.

[13] Cfr. T. Nocentini, Ricostruzione economica, agitazioni sociali e organizzazioni sindacali 1944-1949, “Annali Aretini”, VII (1999), pp. 189-220.

[14] ASEF, SMV, “Documentazione attività sindacali…” cit., accordo interconfederale, 24/2/1945. Si veda anche, Ibidem, “Associazione degli Industriali della provincia di Arezzo. Notiziario”, n.5, s.d.

[15] “La Nazione del Popolo”, 20 settembre 1945. Cfr. anche CGIL – Verbali Direttivi: gli interventi di Attilio Sassi (1945-1954), CD allegato a T. Marabini – G. Sacchetti – R. Zani, Attilio Sassi detto Bestione. Autobiografia di un sindacalista libertario (1876-1957), a cura di G. Sacchetti, Milano, Zero in condotta, 2008.