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Eliminata la conflittualità “per decreto”, il sindacato si trova ad operare in un quadro, giuridicamente predeterminato, tutore del lavoro (in regime di tutela “atomizzata”) ed erogatore di servizi, non come organizzazione dei lavoratori. Sul piano contrattuale il dato ricorrente è che il livello federale procede separatamente rispetto alle vertenze locali. Gli integrativi provinciali si stipulano a fatica. La rappresentanza territoriale rimane “finta”. Il problema del consenso delle masse lavoratrici al fascismo non si porrà più nei termini di “sbocco a sinistra”. L’esito, risibile, di quello sciopero minerario imponente ha avuto come conseguenza indesiderata la de-sindacalizzazione[1]. Nell’Aretino i consensi scarseggiano (“…su 1200 impiegati dipendenti dai Comuni della nostra Provincia, ben 800 sono disertori di questa Associazione voluta dal Duce…”)[2]. L’impossibilità acclarata di realizzare una propria rappresentanza, l’esperienza negativa del ’24, il silenzio dei sindacati di fronte ai licenziamenti di massa del 1927-’28, valgono più del pregiudizio antifascista[3].
Così si va verso la liquidazione, non solo del sindacalismo prefascista, ma anche di quello fascista della prima ondata. Se all’interno delle aziende il rapporto di lavoro rimane immutato, all’esterno si connota per la fine del pluralismo sindacale, per l’estensione di istituti giuridici a validità erga omnes. Il primo passo era stato il patto di Palazzo Vidoni (1925), riconoscimento reciproco fra Confederazione degli industriali e Corporazioni[4]. A seguire, con il contributo decisivo di Rocco, provvedimenti legislativi su: divieto di sciopero e serrata, Magistratura del lavoro con funzioni di arbitrato, contrattazione collettiva e sindacati di categoria come soggetti giuridici esclusivi (legge 3 aprile 1926, n.563, e R.D. 1 luglio 1926, n. 1130). La Carta del Lavoro (1927) poi disegna lo Stato corporativo, afferma il principio dell’unitarietà del complesso della produzione[5].
Lo “sbloccamento” (1928), delimitazione della rappresentanza all’ambito federale, segna l’epilogo di un percorso decennale che ha visto il lento deperimento della dimensione politico confederale. Ciò coincide con l’accantonamento delle velleità autonomistiche del Rossoni, mentre prevale la concezione di Giuseppe Bottai che vede il sindacato in funzione del costituendo sistema corporativo. L’ordinamento poggia sulla coesistenza di imprenditori e lavoratori in un unico organo sottoposto al governo[6]. Lo Stato si fa contenitore amministrativo delle relazioni sociali: con 22 Corporazioni divise in tre gruppi; con le Unioni provinciali dei sindacati ripartite in sezioni categoriali[7].
Benché le relazioni si svolgano in un quadro autoritario, il modello che si afferma precede e segue l’arco temporale di vigenza della dittatura di Mussolini. In esso si ritrovano: rottura del rapporto rappresentanza-tutela; fine della rappresentanza confederale e sindacale di fabbrica; scambio conflitto / contratto collettivo. La dottrina corporativa, terza via teorica fra capitalismo e collettivismo, rivelando la sua dimensione utopica, resta sovrastata da una politica economica protezionistica da paese industrializzato. E le suggestioni bolscevizzanti lanciate da Ugo Spirito nel 1932, sulla corporazione proprietaria (per le nazionalizzazioni contro la libera proprietà), sulla risoluzione del sindacalismo nel corporativismo integrale, rimangono lettera morta. Si esaurisce sul nascere ogni velleità di declinare “a sinistra” la dottrina corporativa[8].
La de-sindacalizzazione nell’Aretino è un fenomeno di rilievo. Nell’ottobre 1928 abbiamo 856 tessere fra i metallurgici, 616 nelle vetrerie, 171 fra coloni e mezzadri, 170 nei fornaciai e cementisti, 111 fra cotonieri e nastrai, 82 edili, 80 ceramisti, 48 braccianti, 46 fra dipendenti industrie varie e 37 impiegati dell’industria, per un totale di 2217 sindacalizzati. Segretario provinciale è Ampelio Pattini, rossoniano, ex-ufficiale e volontario nella grande guerra[9].
Nel 1930 la situazione è tragica: licenziamenti di massa e chiusura delle miniere in Valdarno[10]. Nonostante gli sforzi dell’apparato sindacale aretino, la stagione dei contratti 1927-1930 è un vero fallimento. La Mineraria stipula un accordo con gli organismi corporativi nazionali per la riapertura delle miniere al marzo 1931. In tre lustri si era passati da un organico di 6000 a uno di 800[11]. La riapertura delle miniere ha però una ricaduta positiva sulle fortune locali del sindacalismo. Nell’ottobre ‘31 si tiene ad Arezzo il primo congresso dei lavoratori dell’industria[12]. Il consuntivo presentato da Secondo Amadio, commissario dell’Unione provinciale, vede la seguente situazione: 36 contratti firmati; 205 vertenze, riguardanti 3261 operai. Infine gli iscritti ammonterebbero a 10.475[13]. Inaugurati il 17 gennaio 1932 – a più di sette anni dal famoso “sciopero fascista” del ’24 – i gagliardetti dei “Sindacati degli impiegati ed operai dipendenti dalla Mineraria”[14].
L’Unione provinciale propone la sua ricetta per l’occupazione: priorità nei licenziamenti (viceversa nelle assunzioni) a chi ha altri redditi in famiglia; turni di lavoro ridotti a rotazione; preferenza nelle assunzioni per gli iscritti a PNF e associazioni fasciste; rimpiazzo dei lavoratori anziani; via le donne dai lavori nocivi; abolizione del lavoro straordinario e festivo; divieto di impiego nelle imprese della mano d’opera agricola; sospensione invernale dei licenziamenti. Di lì a poco Amadio è rimosso e sostituito da Enrico Margara[15].
In questo periodo compare il sistema Bedaux, complicato metodo per il calcolo dei tempi di lavorazione (pause e lavoro effettivo), strumento per sanzionare le anomalie del ciclo con la decurtazione dei salari. Il sistema è però ripudiato con provvedimento del Comitato corporativo centrale[16]. Nell’aprile 1933, a un congresso dei sindacati delle industrie estrattive, si evidenzia lo stato del comparto: “Le miniere di Castelnuovo dei Sabbioni si reggono ancora sul doloroso sforzo sopportato dai minatori della provincia di Arezzo che hanno saputo accettare ogni sacrificio (…)”. Sul sistema Bedaux “fattore di depressione fisica e morale dell’operaio” si afferma di essere “ferocemente contrari” ad un’innovazione straniera che ferisce “l’orgoglio di razza”[17] italiano!
Nel dicembre 1934 la Federazione degli esercenti le industrie estrattive e l’omologa dei lavoratori, in applicazione dell’accordo quadro Cianetti – Pirelli, convengono la riduzione dell’orario settimanale a 40 ore, ma… in pratica, il provvedimento risulterà applicabile solo alle basse qualifiche. Lo stesso protocollo d’intesa conferma la possibilità di utilizzare mano d’opera femminile e minorile[18]. Nonostante le 40 ore siano recepite come legge dello Stato nel 1936, rimane la consuetudine degli “orari di fatto”. La regolazione dei tempi di lavoro, peculiarità di una società industriale, resta in mano agli imprenditori. Il progetto totalitario si piega ai ritmi dell’organizzazione produttiva[19].
Dai primi anni Trenta, con la legge istitutiva delle Unioni provinciali, si era operato – con l’impulso della nuova gestione Margara – un ampio riassetto nell’organigramma aretino[20]. Dalle statistiche provinciali si rileva la media annuale di 200 vertenze discusse fino al 1934, più di 700 nel ‘35, mentre la percentuale delle vertenze irrisolte rispetto a quelle intentate si attesta intorno alla metà. Il fenomeno diventa poi di massa coinvolgendo 25.000 operai e 11.000 contadini nella provincia a tutto il 1939, fra vertenze individuali e collettive. L’attività corporativa si potenzia attraverso il Comitato intersindacale, investito nel controllo dei prezzi e nell’applicazione della politica economica anti-sanzioni. Inoltre si promuove la creazione di Casse aziendali di solidarietà presso il Lanificio di Stia, l’ILVA di San Giovanni e la Mineraria. Il Sindacato minatori dichiara 500 organizzati per il 1937. Nel medesimo anno si definisce lo status di lavoratore delle miniere con il riconoscimento di un adeguamento salariale rapportato al costo della vita e la stipula, finalmente, di un contratto collettivo nazionale[21].
L’Autarchia trova nel bacino lignitifero il suo banco di prova[22]. Il Consiglio provinciale dell’economia corporativa istituisce un centro propaganda per indurre i cittadini all’uso di quel combustibile mentre un decreto prefettizio ne dispone l’utilizzo obbligatorio negli uffici pubblici[23]. “La Vita Corporativa Aretina” pubblica una fotografia del Re mentre visita il settore della Mostra dell’Autarchia dedicato alle ligniti valdarnesi (in due anni: incremento produttivo del 50%)[24]. Il ministro delle Corporazioni Ferruccio Lantini, nel 1938 in visita agli impianti autarchici aretini, annuncia l’imminente sistemazione dei tanto attesi integrativi provinciali[25].
Nella stampa sindacale, sulle riviste teoriche fasciste e antifasciste all’estero, da un decennio aleggia un fantasma: il fiduciario di fabbrica, figura indefinita, espressione del contrasto fra gerarchia aziendale e potere sindacale. La sua istituzione (osteggiata da Bottai e Mussolini), bloccata dal comitato intersindacale nel 1929[26], è attuata nel 1939. Gli imprenditori non intendono però legittimare forme spurie della rappresentanza operaia sul luogo di lavoro, neppure dare corpo ad ambigue “comunità aziendali”. Il controllo sulla forza lavoro deve essere esercitato con gli strumenti gerarchici usuali. Il fiduciario di fabbrica sarà quindi una concessione estrema da elargire in tempi di emergenza.
A fine anni Trenta, con il trend virtuoso del settore industriale[27], si apre la “terza fase” del sindacato che vede accresciute le sue competenze: riconoscimento dei fiduciari, cogestione del dopolavoro, attribuzione delle funzioni già svolte dai disciolti patronati. Mentre si prefigura la fine del regime, il sindacato fascista riveste un ruolo potenziale di polo alternativo[28].
I primi anni Quaranta sono invece un periodo di crisi d’identità, con polemiche interne, dottrinali e ideologiche[29]. Di rinnovo di contratti però non si parla e varrà la proroga di quelli vigenti (RDL 12 marzo 1941, n.142) per tutta la durata della guerra, provvedimento considerato, nell’opinione di un gerarca dei sindacati aretini, necessario “adeguamento della prassi sindacale alle esigenze morali e politiche di oggi”[30]. Lo stato delle retribuzioni operaie nel 1940-’42 è tragico, come ammette il presidente della Confederazione dei lavoratori dell’industria Giuseppe Landi (“Con l’aumento legale dei prezzi, vi è indubbiamente il 30% di riduzione di capacità di acquisto”)[31]. L’organizzazione del lavoro negli stabilimenti ausiliari è regolata dal Sottosegretariato per le fabbricazioni di guerra. Le infrazioni disciplinari, se non di natura penale, sono sanzionate da contratti e regolamenti[32]. Per la seconda guerra mondiale non si ripropone una regolamentazione a livello regionale come nel 1915-’18. E sono i sindacati, ovvero le federazioni nazionali, ad ereditare tali funzioni. Vanificati anche quei diritti enunciati, mai applicati. Ratificando una situazione di fatto, a partire dal 31 marzo 1943, le 48 ore settimanali tornano ad essere norma.
[1] ACS, PCM, Gabinetto, 1924, fasc. n. 3, Arezzo.
[2] Cfr. Associazione generale Fascista del Pubblico Impiego, sezione provinciale aretina, circolari 26/7/1928, 1/8/1928, Asca, cg, b. 1075, 15.6.3/1928, “Organizzazioni operaie di resistenza o difesa, sindacati, 1928- 1929”.
[3] Cfr. G. Galli, Arezzo e la sua provincia…cit., pp. 195-6; ACS, PS, 1928, b. 141, Arezzo, prefettizie dal giugno 1927 al luglio 1928, passim.
[4] Cfr. G. Sapelli, Organizzazione del lavoro e innovazione industriale nell’Italia tra le due guerre, Torino, Rosenberg e Sellier, 1978.
[5] Cfr. L. Merlino, Il congresso dei sindacati fascisti, “Gerarchia”, Milano, n.5 / 1928; F. Perfetti, Il sindacalismo fascista. I.-… cit., pp.123-43.
[6] Cfr. G. Bottai, Le Corporazioni, Milano, A. Mondatori, 1932; F. Perfetti, Il sindacalismo fascista. I.-… cit., pp. 155 sgg.
[7] Cfr. “Il Lavoro Fascista” (“LF”), 24 febbraio 1933, I nuovi statuti sindacali. Costituzione, scopi e competenza delle Unioni provinciali dei Sindacati dell’Industria; “LF”, 11 maggio 1934, Il Comitato Corporativo Centrale presieduto dal Duce approva la costituzione delle Corporazioni.
[8] Cfr. F. Perfetti, Ugo Spirito e la concezione della corporazione proprietaria al convegno di studi sindacali e corporativi di Ferrara del 1932, “Critica Storica”, n. 2 / 1988, pp. 202-43.
[9] Cfr. “LF”, 23 maggio 1929, Il movimento sindacale ad Arezzo; “La Nazione”, 16 ottobre 1928; “Giovinezza”, 7 marzo 1928.
[10] RSM, 1930, p. CCXXV-VII; ACS, PS, 1928, b. 141, Arezzo, prefettizie cit.
[11] Cfr. “LF”, 10 marzo 1931, L’interessamento del Capo del Governo per i minatori del Valdarno.
[12] Cfr. “LF”, 6 ottobre 1931, L’on. Biagi inaugura solennemente ad Arezzo il primo Congresso provinciale dei lavoratori dell’Industria.
[13] Cfr. “LF”, 6 aprile 1932, L’attività dei Sindacati dell’Industria nel 1931.
[14] Cfr. “LF”, 19 gennaio 1932, Il gagliardetto dei minatori del Valdarno inaugurato alla presenza di S.E. Alfieri e dell’on. Biagi.
[15] Cfr. “LF”, 24, 28 gennaio 1932, Contro la disoccupazione. I provvedimenti del Comitato Intersindacale di Arezzo; “Lavoro Industriale”, Bollettino della Confederazione dei Sindacati Fascisti dell’Industria (CSFI), a. III, n. 2, 26 giugno 1932.
[16] Cfr. “Lavoro Industriale”, Bollettino CSFI, a. III, n. 1, 12 giugno 1932; E. Malusardi, Un’ultima parola sul sistema Bedaux, “LF”, 16 novembre 1934.
[17] Cfr. “LF”, 5 aprile 1933, Le caratteristiche, l’importanza e le condizioni del lavoro minerario ampiamente esaminate dal Congresso dei Sindacati delle Industrie Estrattive.
[18] Cfr. “LF”, 5 dicembre 1934, Per gli operai delle industrie estrattive.
[19] Cfr. G. Garbarini, La disciplina del tempo. Gli orari di lavoro durante il fascismo, in AA.VV., Questione di ore. Orario e tempo di lavoro dall’800 a oggi. Studi e ricerche, a cura di M. Bergamaschi, Pisa, BFS, 1997, pp. 72-113.
[20] Cfr. “LF”, 12 agosto 1933, L’attività dei Sindacati Fascisti dell’Industria di Arezzo nel primo semestre 1933.
[21] Cfr. “LF”, 11 maggio 1937, Il compiacimento dei lavoratori d’ogni categoria per la decisione del Duce di meglio adeguare i salari al costo della vita; “Bollettino Ufficiale del Ministero delle Corporazioni”, 31 ottobre 1937-XVI.
[22] Cfr. M. Pizzigallo, L’obiettivo dell’indipendenza energetica, in G. Galasso (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia. 3. Espansione e oligopolio. 1926-1945, tomo 1, Roma-Bari, Laterza 1993, pp.175-87.
[23] Cfr. “La Vita Corporativa Aretina”, n. 11 / 1936, Industria. Utilizzazione delle mattonelle di lignite; Ivi, n. 7 / 1937, L’On. Tarchi alle miniere di Castelnuovo dei Sabbioni; Ivi, n. 10 / 1937, Industria. Autarchia e riscaldamento.
[24] Cfr. “La Vita Corporativa Aretina”, n. 7 / 1938.
[25] Cfr. “LF”, 16 settembre 1938, S.E. Lantini visita gli impianti autarchici in provincia di Arezzo.
[26] “La Voce Industriale”, n. 5-8, 1 maggio 1929, I fiduciari dei Sindacati.
[27] Cfr. G. Galasso, Crisi e trasformazioni dell’economia italiana, in ID. (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia. 3. Espansione e oligopolio. 1926-1945, tomo 1 cit., pp. 1-59.
[28] Cfr. A. Pepe, Il Sindacato fascista, in AA. VV., Il regime fascista, a cura A. Del Boca, M. Legnani, M. G. Rossi, Bari, Laterza, 1995, pp.240-1.
[29] Cfr. G. Parlato, Il sindacalismo fascista. II.- Dalla “grande crisi” alla caduta del regime (1930-1943), Roma, Bonacci, 1989, pp. 175-81.
[30] A. Pattini, Il blocco dei contratti di lavoro, “LF”, n. 248, 17 ottobre 1941.
[31] Cfr. Convegno nazionale dei dirigenti della Confederazione lavoratori industria, 9-10 dicembre 1941-XX, verbale dattiloscritto dei lavori, Carte Landi, Verbali riunioni 1941, p. 28 (G. Parlato, Il sindacalismo fascista. II.-… cit., pp. 148-9).
[32] Cfr. G. Parlato, Il sindacalismo fascista. II.-… cit., pp. 158 sgg.