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La guerra europea, periodo cruciale per la storia economica e sindacale del nostro paese, si presenta, con la crescita dell’industria bellica, come un’opportunità per concretizzare grandi affari, motore per la trasformazione produttiva. Si rafforza il ruolo dell’apparato statale, pianificatore dell’economia, garante delle priorità nell’indirizzo delle attività industriali. Gli strumenti giuridici per tale funzione, saranno i così detti decreti di ausiliarietà e la Mobilitazione Industriale, ossia l’adozione di un sistema di gestione delle fabbriche improntato alla disciplina produttivistica. La materia, inquadrata con regio decreto 26 giugno 1915, n.993, nel conferire poteri straordinari al governo, prevede un’articolazione dell’istituto in sette, poi undici, comitati regionali dipendenti dal comitato centrale. La Toscana rientra in un’aggregazione che comprende Italia centrale e Sardegna. L’organismo fa capo al neo-costituito sottosegretariato, poi ministero, delle armi e munizioni[1]. Suo compito è individuare gli stabilimenti da dichiarare “ausiliari”, di concerto con l’apparato militare. Controversie, organizzazione produttiva, innovazione tecnologica, salario, reclutamento, mobilità, licenziamenti, addestramento professionale, contratti, esoneri e comandi… le competenze spaziano.
Alla vigilia della guerra lo scenario sindacale italiano è composito. Le leghe affiliate alla Confederazione Generale del Lavoro (CGdL) non raggiungono la metà del totale, ripartendosi il resto fra Unione Sindacale Italiana (USI), organizzazioni cattoliche (ispirate a fondamenti corporativi) e altre[2]. Il “sindacalismo nazionale”, categoria storiografica novecentesca che si dispiega con il ciclo fordista, trova i suoi fondamenti anche nelle concezioni riformiste partecipative delle relazioni industriali affacciatesi in età giolittiana. Ne è un chiaro esempio la Camera del Lavoro di Arezzo, fondata nel 1901 da esponenti democratico radicali, di indirizzo confederalista al momento della fondazione della CGdL, contenitore burocratico territoriale avulso dalle realtà organizzative di maggiore combattività nella provincia, soggetta nei suoi primi due decenni di vita a periodiche reggenze o temporanee chiusure “per consunzione”[3]. Così nel 1912, epoca di uno dei suoi tanti commissariamenti[4], mentre si trova affidata alla tutela della consorella fiorentina, anch’essa d’indirizzo riformista, si evidenziano inediti tentativi di gestione collaborativa del conflitto sociale. Si tratta, è vero, di fronteggiare l’ondata sindacalista rivoluzionaria legata all’USI, appena scissa dalla CGdL, ma già egemone fra minatori e metallurgici della provincia. Il “commissario”, facente funzione di segretario camerale, è Giuseppe Puglioli. La sua carriera di dirigente, pochissimo considerata dalla storiografia sul movimento operaio toscano, si svolge fra Firenze e Arezzo ed è improntata all’idea di partecipazione della rappresentanza operaia alle relazioni industriali. Puglioli, figura atipica di sindacalista, è promotore a Firenze, dove è vicesegretario della Camera del lavoro (segretario Sebastiano Del Buono), della Scuola pratica di legislazione sociale (1910), poi “membro operaio” del Comitato regionale della Mobilitazione Industriale[5].
L’interventismo è l’altro elemento costitutivo del sindacalismo nazionale. La scissione dall’USI della pattuglia bellicista – che costituisce il Comitato Sindacale Italiano e quindi l’Unione Italiana del Lavoro (UIdL) – ha poco seguito nelle vallate aretine dove prevale la linea pacifista / antimilitarista[6].
In provincia le miniere di lignite, insieme alle Ferriere di San Giovanni Valdarno, sono incluse nel primo decreto di ausiliarietà (n.1 del 4 settembre 1915). La Sacfem (Società Costruzioni Ferroviarie e Meccaniche) sarà invece interessata l’anno successivo (decreto n. 83 del 23 aprile 1916). Nel 1917 (decreti 208 e 250) sarà la volta delle piccole miniere di Ca’ Maggio a Pratovecchio in Casentino, di Pratantico e Quarata presso Arezzo[7]. Nel comune capoluogo le organizzazioni sindacali risulterebbero liquidate. “…causa la Guerra tutte le Leghe sono sciolte. Arezzo, lì 8-3-916” scrive il sindaco al prefetto[8].
La standardizzazione in cicli produttivi continui, con l’introduzione di nuove macchine, accentua il peso della massa dequalificata. Pertanto le direttive sono: valorizzare la forza-lavoro specializzata, rara e preziosa, ottimizzare l’impiego dei ‘generici’. Ma, a tale proposito, la necessaria semplificazione delle mansioni che viene richiesta non è praticabile in pari misura fra i minatori come fra gli operai delle fabbriche organizzate in forma tayloristica. Lo stesso dicasi per l’ingresso di donne e fanciulli negli organici, a seguito del richiamo alle armi degli uomini. Il lavoro propriamente da minatore continua ad essere svolto con il metodo delle compagnie composte da 4/5 unità. I cambiamenti si verificano casomai sui piazzali con l’impiego (stoccaggio, carico/scarico, vaglio dello sterile) di “femmine adulte”, “femmine minorenni”, “manovali maschi sotto i 15 anni”. Lavorano all’esterno detenuti militari e prigionieri di guerra dell’esercito austro-ungarico, adibiti allo sterro. La riserva di manodopera -“l’altro esercito”- continua a essere fornita dalle campagne: pigionali e mezzadri delle classi di leva anziane sono sempre disponibili per le incombenze meno remunerative, con orari giornalieri fino a dodici ore[9].
Anche la ferriera (ILVA) di San Giovanni – che occupa oltre 800 operai – si trasforma in “fabbrica di guerra”, dotandosi di un’acciaieria, rammodernando il ciclo produttivo, sostituendo i vecchi forni a lignite con quelli elettrici, specializzandosi in forniture militari: ogive, tondi di acciaio da proiettili, piccozze, pali da reticolato, piccoli profilati in ferro e acciaio, cucine e attrezzature da campo[10].
La militarizzazione prevede una ferrea disciplina. Il dipendente esonerato indossa un bracciale tricolore e deve assoluta obbedienza ai superiori. Non ha diritto a scioperare ed è sottoposto a severe sanzioni in caso di scarso rendimento o di comportamenti contrari agli interessi nazionali. Una minaccia costante incombe: la revoca dell’esonero con il contestuale invio punitivo al fronte. I lavoratori si trovano sottoposti alla normativa militare, ad una regolamentazione coatta del lavoro e della conflittualità. La mobilitazione equivale ad una sorta di interferenza esterna nell’azienda, supplenza nella funzione di governo della manodopera sui piani tecnico e disciplinare. Gli organismi preposti a tale compito prevedono al loro interno una rappresentanza ‘operaia’ (4 membri su 12) con compiti consultivi[11].
Sono previste differenti figure: si va dal comandato, che è a libro paga dell’esercito, all’esonerato, al dispensato, al non-richiamato. I criteri con i quali si propongono le liste del personale da trattenere al lavoro, da far assumere o rientrare dal fronte, sono di natura tecnico produttiva oppure clientelare, con un ampio turn over[12]. Alla fine del periodo di Mobilitazione le preoccupazioni degli industriali si trasformeranno in recriminazioni contro la politica imposta sul reclutamento in miniera. Eppure la produttività media mensile per operaio in Valdarno risulta doppia della media nazionale![13].
Anche alla Sacfem la guerra ha stravolto l’assetto produttivo con buone ricadute sull’occupazione. Lo stabilimento produce ora proiettili di grosso calibro, granate; assembla e ripara aeroplani. Intensifica – per le necessità logistiche dell’esercito – la tradizionale costruzione di materiale rotabile ferroviario. Il numero degli operai, dai 265 del 1915, raggiunge così, in breve, il migliaio. Sono in maggior parte aggiustatori addetti all’officina meccanica, manovali, tornitori, guida macchine, falegnami e fucinatori. E neppure qui mancano le solite difficoltà nel reperire manodopera specializzata in loco, nessun problema invece per le basse qualifiche. Fra il 1916 e il 1918 la Sacfem assume quarantadue donne. L’orario settimanale, come in tutto il comparto, scenderà da 60 a 48 ore soltanto nell’ultimo anno di guerra[14].
Il lavoro, elemento che si sta legando profondamente ai destini della Nazione, diventa fattore rilevante per quei settori – minerario, siderurgico, meccanico… – da sempre caratterizzati dal primato degli aspetti tecnici e finanziari, dalla concentrazione elevata di capitali. Le questioni attinenti la gestione delle risorse umane si fanno ancora più determinanti per l’assetto produttivo. Nelle vertenze di questi anni si pongono le premesse per la stagione rivendicativa del dopoguerra introducendo una dialettica regolamentata fra le parti. Insomma è una vera rivoluzione culturale[15]. L’anticipazione più rilevante è la contrattazione: tendenza, duratura, a rompere disomogeneità e sperequazioni nei trattamenti, a ridimensionare status e potere contrattuale degli strati professionalizzati. I patti contrattuali si fanno norma, se non atti amministrativi, e risultano dalle elaborazioni di incontri triangolari nell’ambito di strutture permanenti. Esigenze produttive, coordinamento statale e tutela del lavoro si razionalizzano nell’unica forma che sembra praticabile, con prassi autoritarie. La sospensione del diritto di sciopero segna un evidente vulnus all’autonomia negoziale. La Mobilitazione industriale si pone dunque come risoluzione della crisi: “su di un piano di pura amministrazione economico contrattuale”[16]. La nuova organizzazione del lavoro, basata sulla frenesia produttiva, lascia insolute varie questioni. Per questo i sindacati presentano i loro memoriali. Ma si ricercano anche, ove possibile, accordi ispirati al principio della collaborazione. Interessante notare come – paradossalmente – le correnti anarcosindacaliste, ben rappresentate nella provincia aretina, siano in questa fase protagoniste di non indifferenti successi. L’atteggiamento dell’USI verso i comitati della Mobilitazione Industriale è di riconoscerli quali controparti, ma senza parteciparvi. Tattica sperimentata a Sestri, Spezia, Milano, Carrara, Terni, Piombino e in Valdarno[17].
[1] Cfr. L. Mascolini, Il Ministero per le Armi e Munizioni (1915-1918), “Storia Contemporanea”, n. 6 / 1980., pp. 933 sgg.
[2] Cfr. F. Bertini, Le parti e le controparti. Le organizzazioni del lavoro dal Risorgimento alla Liberazione, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 162-165.
[3] Cfr. G. Sacchetti, Sindacalisti e anarchici: il socialismo rivoluzionario valdarnese e aretino ai primi del Novecento, “Annali Aretini”, IV (1996), pp. 179-191.
[4] Archivio Storico Comune di Arezzo (Asca), Carteggio Generale (cg), b. 766, 15.5.2/1912, “Organizzazione operaia”.
[5] Cfr. G. Sacchetti, Ligniti per la Patria… cit., pp. 71-84.
[6] Cfr. Ivi, pp. 61-62; F. Bertini, Le parti e le controparti… cit., pp. 168-172.
[7] Cfr. L. Tomassini, Lavoro e guerra. La “Mobilitazione Industriale” italiana 1915-1918, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1997; ACS, Ministero per le armi e munizioni. Decreti di ausiliarietà, Inventario a cura di A. G. Ricci e F. R. Scardaccione, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1991, pp. 7-38, 585, 633.
[8] Asca, cg, b. 862, 15.6.3/1916, “Organizzazioni operaie di resistenza. Camera del lavoro”; Ivi, b. 884, 15.6.3/1917.
[9] Ai contadini toscani si aggiungono profughi dal Veneto Friuli. Nel 1918, su 5056 addetti alla miniera: 1818 (maschi adulti) lavorano in galleria, il resto all’esterno: 2959 uomini e 88 ragazzi; 191 donne di cui 58 bambine. Cfr. “Rivista del Servizio Minerario” (RSM), 1917 e 1918, passim.
[10] Cfr. I. Biagianti, Sviluppo industriale e lotte sociali nel Valdarno superiore (1860-1922), Firenze, Leo S. Olschki, 1984, pp. 321 sgg.
[11] Archivio Centrale dello Stato (ACS), Ministero Industria Lavoro Commercio, C.C. Mobilitazione Industriale, b. 21, fasc. 4, CRMI per la Toscana.
[12] Cfr. L. Tomassini, Lavoro e guerra…. cit., pp. 93 sgg.; Archivio Storico Enel Firenze (ASEF), Società Mineraria Elettrica Valdarno (SMEV), b. 201, copialettere 1908-1918, Ufficio Personale, 1917 e 1918, cc.2-16, 244 sgg., 403-4.
[13] “(…) Si impiegano nelle miniere di combustibili donne e fanciulli che lavorano con ammirevole buona volontà, insieme a parecchi operai di forze limitate per età o per difetti fisici (…)” (F. S. Pucci, Ancora del valore delle ligniti, “Rassegna Mineraria Metallurgica e Chimica”, Roma, n. 10 / 1918).
[14] Cfr. A. Nesti, Un patrimonio industriale scomparso: la Società Anonima Costruzioni Ferroviarie e Meccaniche nell’industrializzazione italiana (1906-1940), in A. Nesti – T. Nocentini, Sacfem: Storia di una fabbrica nel XX secolo, Firenze, Edizioni Polistampa, 2008.
[15] Cfr. D. Felisini, Lavoratori e quadri aziendali, in L. De Rosa, (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia. 2. Il potenziamento tecnico e finanziario. 1914-1925, Il potenziamento tecnico e finanziario. 1914-1925, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 543 sgg.
[16] Cfr. A. Pepe, Il Sindacato nell’Italia del ‘900, Soveria Mannelli, Rubbettino editore, 1996, pp. 42-4.
[17] Cfr. M. Antonioli, Armando Borghi e L’Unione Sindacale Italiana, Manduria Bari Roma, Piero Lacaita, 1990, pp. 209-18.