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Ho esaminato in un saggio precedente un’accusa che viene rivolta sempre più spesso contro le scuole e che si rispecchia, per esempio, nel recente rapporto della Commissione Carnegie: a scuola gli studenti iscritti si sottomettono a insegnanti diploma ti per ottenere a loro volta dei diplomi; gli uni e gli altri si sentono frustrati e incolpano della loro reciproca frustrazione l’insufficienza di mezzi quali il denaro, il tempo o le sedi.
Questa critica induce molte persone a chiedersi se sia concepibile una maniera diversa di apprendere. Le stesse persone, paradossalmente, se sollecitate a precisare come hanno acquisito ciò che sanno e apprezzano, sono pronte ad ammettere di averlo imparato più fuori che dentro la scuola. La loro conoscenza dei fatti la loro, idea della vita o del lavoro derivano da un’amicizia o da un amore, da ciò che hanno visto alla televisione o hanno letto, dagli esempi dei loro coetanei o dallo stimolo di un incontro casuale. Oppure possono aver imparato ciò che sanno dal tirocinio rituale necessario per essere ammessi in una banda di strada o dal periodo di iniziazione trascorso in un ospedale, nella cronaca di un quotidiano, nella bottega di un idraulico o in un ufficio di assicurazioni. L’alternativa alla dipendenza dalle scuole non è dunque lo stanziamento di fondi pubblici per qualche nuovo congegno che “faccia” imparare, ma la creazione di un nuovo tipo di rapporto educativo tra l’uomo e il suo ambiente. A questo scopo dovranno però mutare contemporaneamente gli atteggiamenti verso la crescita, gli strumenti disponibili per l’apprendimento e la qualità e la struttura della vita quotidiana.
Gli atteggiamenti stanno già cambiando. È sparita l’ orgogliosa fiducia nella scuola. Aumenta nell’industria della conoscenza la resistenza del consumatore. E molti – insegnanti e allievi, contribuenti e imprenditori, economisti e poliziotti – preferirebbero non dover più dipendere dalle scuole. Ciò che impedisce alla loro frustrazione di foggiare istituzioni nuove è la mancanza, non solo di immaginazione, ma spesso anche di un linguaggio appropriato e di un interesse personale illuminato. Non riescono a immaginare ne una società descolarizzata ne le istituzioni pedagogiche di una società che abbia soppresso l’istituzione scolastica.
In questo saggio intendo dimostrare che il contrario della scuola è possibile; che possiamo affidarci a un apprendimento autonomo invece di assumere insegnanti che allettino o costringano lo studente a trovare il tempo e la voglia d’imparare; che possiamo fornire al discente nuovi agganci con il mondo anziché continuare a somministrare tutti i programmi didattici attraverso l’imbuto dell’insegnante. Esporrò alcune delle caratteristiche generali che distinguono la scolarizzazione dall’apprendimento e cercherò di delineare quattro grandi categorie di istituzioni didattiche che dovrebbero attrarre non solo molti individui ma anche parecchi gruppi di interesse esistenti.
Un’obiezione: a chi possono servire dei ponti che non portano da nessuna parte?
Siamo abituati a considerare le scuole come una variabile, dipendente dalle strutture. politiche ed economiche. Siamo convinti che se riuscissimo a cambiare il tipo di direzione politica, o a far valere gli interessi di questa o quella classe, o a trasferire dalle mani private a quella pubblica la proprietà dei mezzi di produzione, cambierebbe anche il sistema scolastico. Le istituzioni didattiche che mi accingo a proporre sono invece destinate al servizio di una società che ora non esiste, anche se l’attuale senso di frustrazione nei confronti della scuola è già potenzialmente una forza importante per avviare il cambiamento in direzione di nuovi ordinamenti sociali. A questo modo di vedere le cose è stata rivolta una facile obiezione: perché convogliare energie nella costruzione di ponti che non portano da nessuna parte anziché adoperarle per modificare, innanzitutto, non le scuole ma il sistema politico ed economico?
Questa obiezione però sottovaluta la natura fondamentalmente politica ed economica del sistema scolastico stesso, oltre che il potenziale politico inerente ad ogni sua efficace contestazione.
Le scuole sostanzialmente, non dipendono più dall’ideologia professata da un governo o da una particolare organizzazione di mercato. Altre istituzioni-base possono essere diverse da un paese all’altro, come la famiglia, il partito, la chiesa o la stampa; ma il sistema scolastico ha dappertutto la stessa struttura e dappertutto il suo programma occulto produce gli stessi effetti. Invariabilmente, esso plasma il consumatore che apprezza i prodotti istituzionali più dell’aiuto non professionale del vicino.
Dappertutto il programma occulto della scolarizzazione inizia il cittadino al mito dell’efficienza e benevolenza delle burocrazie guidate dalla conoscenza scientifica. Dappertutto questo stesso programma istilla nell’allievo il mito che una produzione maggiore assicurerà una vita migliore. E dappertutto crea l’abitudine al consumo frustrante di servizi e alla produzione alienante, l’assuefazione a dipendere dalle istituzioni e l’accettazione delle gerarchie istituzionali. Il programma occulto della scuola realizza tutto questo nonostante gli sforzi in senso contrario intrapresi dagli insegnanti e qualunque sia i l’ideologia dominante.
In altri termini, le scuole sono sostanzialmente simili in tutti i paesi, siano essi fascisti, democratici o socialisti, ricchi o poveri, grandi o piccoli. L’identità dei sistemi scolastici ci costringe a riconoscere la profonda identità, su scala mondiale, del mito, dei modi di produzione e dei metodi per il controllo della società, nonostante la grande varietà di mitologie nelle quali il mito si esprime.
Alla luce di questa identità, è illusorio sostenere che le scuole siano, in senso non superficiale, delle variabili dipendenti. Ne consegue che è anche un’illusione sperare in un cambiamento sostanziale del sistema scolastico per effetto di un cambiamento sociale o economico di tipo convenzionale. Questa illusione, tra l’altro, assicura alla scuola – cioè all’ organo di riproduzione della società dei consumi un’immunità quasi incontestata.
A questo punto diventa importante l’esempio della Cina. Per tre millenni questo paese ha protetto la cultura superiore mantenendo un distacco totale tra il processo d’apprendimento e i privilegi assicurati dagli esami per il mandarinato. Ma, per diventare una potenza mondiale e uno stato nazionale moderno, anche la Cina ha dovuto adottare il modello internazionale della scolarizzazione. Solo l’avvenire ci permetterà di stabilire se la “grande rivoluzione culturale” passerà alla storia come il primo tentativo riuscito di descolarizzare le istituzioni di una società.
Anche la creazione asistematica di nuovi organi didattici che siano il contrario della scuola sarebbe un modo di attaccare l’anello più sensibile di un fenomeno invadente, che è organizzato dallo stato in tutti i paesi. Un programma politico che non riconosca esplicitamente la necessità della descolarizzazione non può dirsi rivoluzionario: chiedere una dose maggiore della stessa minestra è mera demagogia. Qualunque programma politico importante degli anni settanta dovrebbe essere valutato secondo questo criterio: con quanta chiarezza afferma la necessità della descolarizzazione? e con quanta chiarezza precisa le linee direttive del tipo d’istruzione della società alla quale tende?
La lotta contro lo strapotere del mercato mondiale e della politica delle grandi potenze è forse al di sopra delle possibilità di certe comunità o paesi poveri, ma la loro debolezza è una ragione in più per insistere sull’importanza di liberare ogni società attraverso un capovolgimento della sua struttura didattica: un cambiamento questo che non è al di sopra dei mezzi di nessuna società.
Caratteristiche generali delle nuove istituzioni didattiche formali
Un buon sistema didattico dovrebbe porsi tre obiettivi: assicurare a tutti quelli che hanno voglia d’imparare la possibilità d’accedere alle risorse disponibili, in qualsiasi momento della loro vita; permettere, a tutti quelli che vogliono comunicare ad altri le proprie conoscenze, di incontrare chi ha voglia di imparare da loro; offrire infine a tutti quelli che vogliono sottoporre a pubblica discussione un determinato problema la possibilità di render noto il loro proposito. Un tale sistema esigerebbe l’applicazione di alcune garanzie costituzionali all’istruzione. I discenti non dovrebbero essere costretti ad assoggettarsi a un programma obbligatorio, o discriminati in base al possesso di un certificato o di un diploma. Ne il pubblico dovrebbe essere costretto a sostenere, mediante una tassazione regressiva, un enorme apparato professionale di educa tori e di edifici che, di fatto, limita le possibilità d’apprendimento dei cittadini ai servizi che la categoria dei docenti è disposta a immettere sul mercato; dovrebbe invece utilizzare la tecnologia moderna per rendere veramente universali, e quindi totalmente educative, le libertà di parola, di riunione e di stampa. Le scuole sono basate sul presupposto che ogni aspetto della vita abbia il suo segreto; che la qualità della vita dipenda dalla conoscenza di questo segreto; che i segreti si possano apprendere soltanto in una sequenza ordinata; e che solo gli insegnanti possano svelarli nel modo giusto. Un individuo dalla mentalità scolarizzata vede il mondo come una piramide di prodotti confezionati, riservati esclusivamente a chi possegga il prescritto scontrino. Le nuove istituzioni didattiche abbatterebbero questa piramide. Il loro scopo dovrebbe essere quello di facilitare l’accesso al discente, di permettergli cioè, se non ha la possibilità di entrare dalla porta, di guardare dalle finestre nella stanza dei bottoni o nel parlamento. Inoltre queste nuove istituzioni dovrebbero essere canali accessibili senza particolari credenziali o pedigree, spazi pubblici nei quali il discente possa incontrare coetanei e anziani estranei al suo orizzonte immediato.
lo credo che basterebbero quattro, e forse anche soltanto tre, “canali” o centri di scambio dell’apprendimento, per radunare tutte le risorse necessarie a imparare veramente. Il bambino cresce in un mondo di cose, circondato da persone cui si ispira come modelli per le capacità e i valori. Trova dei coetanei che lo stimolano a discutere, a competere, a cooperare e a capire; e se è fortunato, è anche soggetto alla verifica o alle critiche di un anziano più esperto cui sta realmente a cuore. Cose, modelli, coetanei e anziani sono quattro risorse, ognuna delle quali richiede un tipo particolare di organizzazione per garantire che tutti abbiano ampie possibilità di accedervi.
Per indicare i modi specifici di assicurare l’ accesso a ognuna di queste quattro serie di risorse, parlerò di “trame di possibilità” anziché di “reti”. Il termine “rete”, purtroppo, viene spesso impiegato per designare i canali adibiti alla somministrazione di materiali selezionati da altri a scopo di addottrinamento, istruzione o divertimento. Ma lo si può usare anche per il telefono o il servizio postale, che sono essenzialmente accessibili a tutti gli individui che vogliono scambiarsi dei messaggi. Vorrei che avessimo a disposizione un’altra parola, per designare le nostre strutture reticolari intese a permettere un accesso reciproco, una parola che facesse meno pensare all’intrappolamento, che fosse meno degradata dall’uso corrente e che suggerisse meglio il fatto che qualunque ordinamento di questo tipo comporta aspetti legali, organizzativi e tecnici. Non avendo trovato un termine del genere, cercherò di ricuperare il solo disponibile, usandolo come sinonimo di “trama didattica”.
Ciò di cui abbiamo bisogno sono nuove reti, a disposizione immediata del pubblico e fatte in modo da poter assicurare a tutti eguali possibilità di apprendere e di insegnare.
Facciamo un esempio. I televisori e i registratori presuppongono uno stesso livello tecnologico. Ora tutti i paesi dell’America latina hanno introdotto la televisione e in Bolivia, dove il governo ha finanziato una stazione televisiva, costruita sei anni fa, non ci sono più di settemila televisori per una popolazione di quattro milioni di abitanti. Con le somme impegnate nelle Installazioni televisive in tutta l’America latina si sarebbe invece potuto fornire un registratore a un cittadino adulto su cinque e, in più, costituire una biblioteca pressoché sterminata di nastri già incisi, con succursali fin nei villaggi più remoti, oltre a un’ampia scorta di nastri in bianco. Questa rete di registratori, ovviamente, sarebbe radicalmente diversa dalla rete televisiva attuale. Offrirebbe una possibilità di esprimersi liberamente: gli istruiti come gli analfabeti avrebbero eguali occasioni di registrare, conservare, diffondere e ripetere le proprie opinioni. Le somme attualmente investite nella televisione assicurano invece ai burocrati, siano essi uomini politici o educatori, il potere di inondare il continente di programmi prodotti istituzionalmente che, a giudizio loro o dei loro finanziatori, vanno bene per la gente o la gente richiede. La tecnologia è disponibile per promuovere tanto l’indipendenza e l’apprendimento quanto la burocrazia e l’insegnamento.
Quattro reti
La programmazione delle nuove istituzioni didattiche non dovrebbe fondarsi sulle finalità amministrative di un rettore o di un preside, sugli obiettivi didattici di un educatore professionista o sulle necessità d’apprendimento di una qualsiasi ipotetica categoria di persone. Non bisognerebbe partire dalla domanda: “Che cosa dovrebbe imparare una persona?” ma dalla domanda: “Con quali oggetti e quali persone possono voler mettersi in contatto i discenti per poter imparare?”.
Chi vuole imparare sa di aver bisogno che qualcun altro gli fornisca sia le informazioni sia una loro valutazione critica. Le informazioni possono essere contenute in persone come in oggetti. In un buon sistema didattico gli oggetti dovrebbero essere disponibili su semplice richiesta del discente, mentre l’accesso agli informatori umani richiederebbe, in più, il consenso altrui. La critica può anch’essa venire da due direzioni: dai coetanei come dagli anziani, cioè sia da quelli che imparano insieme con me e i cui interessi immediati coincidono con i miei, sia da quelli che possano farmi partecipe della loro maggiore esperienza. I coetanei possono essere colleghi con i quali sollevare un problema, compagni di letture o di passeggiate scherzose e piacevoli (o faticose), avversari in qualunque tipo di gioco. Gli anziani possono consigliarci sulla specializzazione da apprendere, sul metodo da usare e sulle compagnie da cercare in un determinato momento; possono servire da guida perché tra coetanei ci si rivolgano le domande giuste e segnalare le insufficienze delle risposte cui essi pervengono. Quasi tutte queste risorse sono già disponibili in abbondanza; ma da un lato non le si considera in genere delle risorse didattiche e dall’altro non è facile, soprattutto ai poveri, accedervi con facilità a fini d’apprendimento. Dobbiamo quindi inventare nuove strutture, di rapporti che. siano concepite proprio per facilitare l’accesso a tali risorse da parte di chiunque abbia motivo di cercarle per istruirsi. Ma per istituire queste strutture, simili a trame, occorrono dei dispositivi amministrativi, tecnologici e soprattutto giuridici.
Le risorse didattiche vengono di solito classificate secondo gli obiettivi dei programmi di studio preparati dagli educatori. lo invece intendo fare il contrario definire cioè quattro diversi procedimenti che permettano allo studente di accedere a qualunque risorsa didattica in grado di aiutarlo a precisare e a raggiungere i propri obiettivi.
1. Servizi per la consultazione di oggetti didattici che facilitino l’accesso alle cose o ai processi usati per l’apprendimento formale. Tali risorse possono essere in parte riservate a questo scopo e conservate in biblioteche, agenzie di noleggio, laboratori e sale d’esposizione come i musei e i teatri; oppure adoperate quotidianamente nelle fabbriche, negli aeroporti o nelle fattorie, ma messe a disposizione degli studenti, siano essi apprendisti o frequentatori fuori orario.
2. Centrali delle capacità – che permettano agli individui di esporre le proprie capacità, le condizioni che pongono per servire da modelli a chi vuole impararle, e gli indirizzi ai quali sia possibile reperirli.
3. Assortimento degli eguali – cioè una rete di comunicazione che permetta alle persone di descrivere il tipo di apprendimento cui vogliono dedicarsi, nella speranza dl trovare un compagno di ricerca.
4. Servizi per la consultazione di educatori in genere – professionisti, paraprofessionisti e liberi operatori, che potrebbero essere elencati in una guida con l’indirizzo, una descrizione fatta dagli stessi interessati e le condizioni per accedere ai loro servizi. Questi professionisti, come vedremo, potrebbero essere scelti mediante un voto o una consultazione dei loro ex clienti.
Servizi per la consultazione di oggetti didattici
Le cose sono strumenti fondamentali dell’apprendimento. La qualità dell’ambiente e il tipo di rapporto che una persona riesce a stabilire con esso determinano quanto quella persona imparerà casualmente. L’apprendimento formale richiede per un verso un particolare accesso alle cose comuni e per un altro verso un accesso libero e sicuro alle cose destinate a scopi specificamente didattici. Un esempio del primo tipo è il diritto particolare di far funzionare o di smontare una macchina in un garage; un esempio del secondo è il diritto generale di servirsi di un pallottoliere, di un computer, di un libro, di un orto botanico o di una macchina tolta dalla produzione e messa a completa disposizione degli studenti. Attualmente si presta particolare attenzione alla disparità tra bambini ricchi e poveri per quanto riguarda la possibilità d’accesso alle cose e la maniera in cui possono trarne un insegnamento; ed è partendo da questa premessa che l’OEO1 e altre organizzazioni si preoccupano soprattutto di pareggiare le possibilità, cercando di fornire ai poveri una maggiore quantità di attrezzi didattici. Un punto di partenza più radicale sarebbe invece la constatazione che nelle città i ricchi come i poveri vengono artificiosamente segregati da quasi tutte le cose che li circondano. I bambini nati nell’età delle materie plastiche e degli esperti in efficienza devono superare due barriere che intralciano la loro possibilità di comprendere: una insita nelle cose e l’altra formatasi intorno alle istituzioni. L’industrial design crea un mondo di cose che non si lasciano comprendere facilmente nella loro natura, e le scuole escludono il discente dal mondo delle cose e dal contesto in cui esse hanno un significato.
Dopo un breve soggiorno a New York, una donna di un villaggio messicano mi raccontò di essere rimasta impressionata dal fatto che i negozi vendevano “soltanto merci pesantemente truccate”. Voleva dire, compresi, che i prodotti industriali “parlano” alla gente delle proprie attrattive e non della propria natura. L’industria ha circondato la gente di manufatti il cui funzionamento interno è comprensibile soltanto agli specialisti. Il profano viene dissuaso dal cercare di scoprire cosa fa battere un orologio, trillare un telefono o funzionare una macchina da scrivere elettrica, con l’avvertimento che se ci provasse romperebbe tutto. Gli si può spiegare come funziona una radio a transistor, ma che lo scopra da solo non è possibile. Questo tipo di design finisce cosl per consolidare una società non inventiva nella quale diventa sempre più facile per gli esperti nascondersi dietro la loro competenza e sottrarsi a ogni valutazione.
L’ambiente costruito dall’uomo è diventato imperscrutabile come lo è la natura per un primitivo. Contemporaneamente tutti i materiali didattici sono diventati un monopolio della scuola. Persino gli oggetti più semplici vengono confezionati a caro prezzo dall’industria del sapere: sono divenuti strumenti specialistici per gli educatori di professione, e si è gonfiato il loro costo forzandoli a stimolare gli ambienti o gli insegnanti.
L’insegnante è geloso del libro di testo, che definisce il suo ferro del mestiere. Lo studente può arrivare a odiare il laboratorio perché lo associa automaticamente al lavoro scolastico. Il preside giustifica il suo atteggiamento protettivo nei confronti della biblioteca affermando di voler difendere un bene pubblico da quanti vorrebbero servirsene per giocarci e non per imparare. In questa situazione accade fin troppo spesso che lo studente adoperi la carta geografica, il laboratorio, l’enciclopedia o il microscopio solo nelle rare occasioni in cui vi è costretto dal programma scolastico. Persino i grandi classici diventano argomenti di studio di un determinato corso invece di segnare una nuova svolta nella vita di un individuo. La scuola sottrae le cose all’uso quotidiano appiccicando ad esse l’etichetta di sussidi didattici.
La descolarizzazione comporta un capovolgimento di queste due tendenze. Bisogna cioè rendere accessibile l’ambiente fisico generale, e le risorse materiali per l’apprendimento, ora ridotte a meri strumenti didattici, devono essere messe a disposizione di tutti per un apprendimento autonomo. Usando le cose solo come parti integranti di un programma di studi può anche essere peggio che limitarsi a toglierle dall’ambiente generale: può infatti guastare l’atteggiamento degli allievi.
Prendiamo per esempio i giochi. Non intendo parlare dei “giochi” che in America dipendono dal dipartimento d’educazione fisica (come il football e la pallacanestro) e che servono alle scuole per raccogliere finanziamenti e prestigio, dopo aver investito in essi delle somme cospicue. Come sanno benissimo gli stessi atleti, queste attività, che assumono la forma di tornei guerreschi, hanno praticamente distrutto l’aspetto giocoso degli sport e servono soltanto a rafforzare il carattere competitivo delle scuole. Penso invece a quei giochi didattici che possono costituire una maniera unica per cominciare a comprendere i sistemi formali. Teoria degli insiemi, linguistica, logica proposizionale, geometria, fisica e persino la chimica si rivelano con un minimo sforzo ad alcune delle persone che fanno questi giochi. Un mio amico andò in un mercato messicano con un gioco chiamato “Wff’n Proof”, che consiste in alcuni dadi sui quali sono impressi dodici simboli logici. Mostrò ai ragazzi che due o tre combinazioni bastavano a formare una frase di senso compiuto, e nel giro di un’ora anche una parte degli spettatori comprese induttivamente il principio. Dopo alcune ore trascorse in questi giocosi esperimenti di logica formale, alcuni ragazzi erano già in grado di far capire ad altri le prove fondamentali della logica proposizionale. Il resto degli spettatori se n’era andato da un pezzo.
Di fatto, per certi ragazzi questi giochi sono una forma particolare di istruzione liberatoria, in quanto li rendono ancor più consapevoli del fatto che i sistemi formali si fondano su assiomi mutabili e che la natura delle operazioni concettuali è simile a quella del gioco. Inoltre sono giochi semplici, poco costosi e, in gran parte, organizzabili dagli stessi giocatori. Usati fuori dei programmi scolastici, danno anche la possibilità di riconoscere e sviluppare certe capacità inconsuete dell’individuo, quelle stesse che, se scoperte dagli psicologi della scuola, sono interpretate come segni d’una pericolosa tendenza dell’individuo stesso a diventare un asociale, un malato o uno squilibrato. Nell’ambito della scuola, invece, quando li si usa in forma di tornei, i giochi non solo vengono sottratti alla sfera dello svago, ma diventano spesso strumenti per trasformare la voglia di giocare in competizione, la riluttanza al ragionamento astratto in un segno d’inferiorità. Un esercizio liberatorio per certi tipi caratteriali diventa una camicia di forza per altri. Il fatto che la scuola monopolizzi l’attrezzatura didattica ha anche un’altra conseguenza. Aumenta enormemente il costo di questi materiali, in se a buon mercato. Limitandone l’uso alle ore prescritte dai programmi, bisogna infatti pagare dei professionisti perché li acquistino li custodiscano e li adoperino. Gli studenti inoltre sfogano la loro rabbia contro la scuola su queste attrezzature e diventa quindi necessario ricomprarle.
Parallela all’intoccabilità degli strumenti didattici è l’impenetrabilità dei congegni moderni. Mentre negli anni trenta ogni ragazzo che si rispettasse sapeva riparare un’automobile, oggi l’industria automobilistica moltiplica le sottigliezze e riserva la consultazione dei suoi manuali ai soli meccanici specializzati. Una volta una vecchia radio conteneva bobine e condensatori sufficienti a costruire un trasmettitore capace di far gracchiare per i disturbi tutte le radio del vicinato; oggi le radio a transistor sono certamente più maneggevoli, ma nessuno ha il coraggio di smontarle. Modificare questa situazione nei paesi altamente industrializzati sarà estremamente difficile ma almeno nel Terzo Mondo dobbiamo insistere sugli aspetti didattici intrinseci ai prodotti.
Per meglio chiarire il mie discorso, mi si permetta di fare un esempio. Con una spesa di dieci milioni di dollari sarebbe possibile, in un paese come il Perù, collegare tra loro 40.000 villaggi con una ragnatela di piste larghe due metri, provvedere alla loro manutenzione e, inoltre, dotare il paese di 200.000 “muli” meccanici a tre ruote, cioè cinque in media per ogni villaggio. Oggi sono pochi i paesi poveri di queste dimensioni che spendono annualmente una somma inferiore in automobili e strade destinate le une e le altre all’uso pressoché esclusivo dei ricchi e dei loro impiegati, mentre i poveri rimangono bloccati nei villaggi. Ognuno di questi piccoli veicoli, semplici ma resistenti, costerebbe 125 dollari, che per metà servirebbero a pagare la trasmissione e un motore a sei cavalli. Un “mulo” potrebbe fare 25 chilometri l’ora e trasportare carichi di quasi quattro quintali (vale a dire quasi tutto quello che viene normalmente trasportato, tranne i tronchi d’albero e le travi d’acciaio).
È ovvio che un sistema di trasporti del genere avrebbe un enorme successo politico tra i contadini. Ma è altrettanto ovvia la ragione per cui coloro che detengono il potere – e perciò dispongono automaticamente di un’ automobile – non hanno alcuna voglia di spender quattrini per costruire piste e ingombrare le strade di “muli” a motore. Un tipo di trasporto universale come questo potrebbe funzionare solo se i dirigenti di un paese fossero disposti a stabilire un limite nazionale di velocità diciamo di 40 chilometri orari e ad adattare a
questo fatto le istituzioni pubbliche. Se lo si concepisse soltanto come un tappabuchi, il modello non potrebbe funzionare.
Non è questa la sede adatta per esaminare le possibilità di attuare questo modello sul piano politico, sociale, economico, finanziario e tecnico. Voglio solo far presente che, nella scelta di una alternativa al sistema di trasporti a forte intensità di capitale, possono assumere importanza primaria le considerazioni di carattere didattico. Aumentando il costo unitario dei “muli” del 20 per cento circa, diventerebbe possibile progettare la produzione di tutte le parti del veicolo in modo che ogni futuro proprietario, o quasi, possa passare un mese o due a montare e capire la sua macchina e sia in grado di ripararla. Con questo costò in più sarebbe anche possibile decentrare la produzione in stabilimenti sparsi. I benefici aggiunti non deriverebbero soltanto dall’inclusione dei costi didattici nel processo di fabbricazione: fatto ancora più importante, un motore resistente, che tutti in pratica potrebbero imparare a riparare e che potrebbe essere usato come aratro o pompa da chi avesSe capito bene come funziona, fornirebbe profitti educativi ben superiori a quelli delle imperscrutabili macchine dei paesi avanzati.
Non sono diventati impenetrabili soltanto i congegni, ma anche i cosiddetti luoghi pubblici della città moderna. Nella società americana i bambini sono esclusi da quasi tutte le cose e i luoghi col pretesto che appartengono a privati. Ma anche nelle società che hanno proclamato la fine della proprietà privata essi sono tenuti lontani dagli stessi luoghi e dalle stesse cose, considerate qui terreno riservato ai professionisti e pericoloso per i non iniziati. Da una generazione in qua il parco di smistamento delle ferrovie è diventato inaccessibile come la caserma dei pompieri; eppure non ci vorrebbe molto ingegno per provvedere questi luoghi di dispositivi di sicurezza. La descolarizzazione dei prodotti utili all’istruzione comporterà che prodotti e processi di produzione siano resi accessibili, e che venga riconosciuto il loro valore didattico. Certo per alcuni lavoratori sarà una seccatura il dover essere a disposizione di chi vuole imparare; ma questo inconveniente va messo a confronto con i vantaggi sul piano educativo.
A Manhattan si potrebbe vietare la circolazione delle auto private. Cinque anni fa sarebbe stato inconcepibile, ma oggi certe strade di New York sono già chiuse al traffico in certe ore, e questa tendenza è destinata probabilmente ad accentuarsi. In realtà si dovrebbero chiudere al traffico automobilistico quasi tutte le strade trasversali e il parcheggio andrebbe proibito ovunque. In una città veramente aperta alla gente, il materiale didattico, oggi chiuso a chiave nei magazzini e nei laboratori, potrebbe essere distribuito a depositi gestiti autonomamente e aperti sulla strada, e bambini e adulti potrebbero frequentarli senza correre il rischio di finire sotto un’automobile.
Se le finalità dell’insegnamento non fossero più determinate dalle scuole e dagli insegnanti, il mercato sarebbe per i discenti molto più vario e la definizione di “materiali didattici” diverrebbe meno restrittiva. Potrebbero aprirsi negozi di utensili, biblioteche, laboratori e sale da gioco. I laboratori fotografici e le stamperie in offset permetterebbero una fioritura di giornali di quartiere. Alcuni centri d’apprendimento aperti sulla strada potrebbero comprendere cabine per assistere a trasmissioni televisive a circuito chiuso, altri specializzarsi nell’utilizzazione e nella riparazione delle macchine per uffici. Ci sarebbero dappertutto jukebox e giradischi, alcuni specializzati in musica classica, altri in motivi folcloristici di tutti i paesi, altri nel jazz. I circoli del cinema sarebbero in concorrenza tra loro e con la televisione commerciale. Dai musei potrebbero ramificarsi delle reti per la circolazione delle opere d’arte, antiche e moderne, in originale o in riproduzione, eventualmente sotto la gestione dei vari musei maggiori.
I professionisti di cui tutta questa rete avrebbe bisogno assomiglierebbero, più che agli insegnanti attuali, a custodi, guide di museo o a bibliotecari. Dal negozio di biologia all’angolo, potrebbero segnalare ai loro clienti la collezione di conchiglie esistente al museo o la prossima presentazione di videonastri d’argomento biologico in una particolare cabina. Potrebbero fornire guide per la lotta contro i parassiti, per il regime alimentare e per altre forme di medicina preventiva. Potrebbero indirizzare chi avesse bisogno di un consiglio ad “anziani” in grado di darglielo.
Per finanziare una rete di “oggetti per l’apprendimento” si possono prendere due strade diverse. O una comunità stabilisce a questo scopo uno stanziamento massimo e fa in modo che tutti i punti della rete siano aperti, con orari ragionevoli, a tutti i visitatori; oppure decide di fornire ai cittadini un numero limitato di autorizzazioni, a seconda delle età, per l’accesso a certi materiali particolarmente rari e costosi, lasciando invece a disposizione di tutti altri materiali più semplici.
Ma il reperimento dei fondi per i materiali appositamente destinati all’istruzione è solo un aspetto – e forse anche il meno costoso – dell’edificazione di un mondo didattico. Il denaro che viene oggi speso per il sacro armamentario del rituale scolastico potrebbe assicurare a tutti i cittadini un più libero accesso alla vera vita della città. Si potrebbero inoltre concedere particolari agevolazioni fiscali a chi impiegasse per un paio d’ore al giorno ragazzi tra gli otto e i quattordici anni, purché beninteso le condizioni di lavoro fossero umane. Dovremmo tornare alla tradizione del bar mitzvah o della cresima. Voglio dire che dovremmo prima ridurre e quindi eliminare lo stato di soggezione giuridica dei giovani e permettere a un ragazzo di dodici anni di diventare un cittadino pienamente responsabile della sua partecipazione alla vita della comunità. Molte persone di “età scolare” sanno del loro rione assai più degli assistenti sociali o dei consiglieri di quartiere. Naturalmente, fanno anche domande più imbarazzanti e propongono soluzioni che costituiscono una minaccia per la burocrazia. Bisognerebbe dunque considerarli maggiorenni, per dar loro la possibilità di mettere al servizio di un governo popolare le proprie conoscenze e la propria capacità di scoprire i fatti.
Fino a poco tempo fa era facile sottovalutare i pericoli della scuola confrontandoli con quelli dell’apprendistato nelle forze di polizia, nel corpo dei vigili del fuoco o nell’industria dello spettacolo. Era facile giustificare le scuole, se non altro come mezzo per proteggere i giovani. Ma oggi, spesso, questo argomento non regge più. Sono stato di recente in una chiesa metodista di Harlem, occupata da un gruppo di Young Lords2 in segno di protesta per la morte di Julio Rodan, un giovane portoricano che, incarcerato, era stato trovato impiccato nella sua cella. Conoscevo i capi di questo gruppo perché avevano trascorso un semestre a Cuernavaca. E quando chiesi come mai non c’era con loro anche un certo Juan, mi dissero che era “tornato all’eroina e all’università”. Per sbloccare il potenziale didattico contenuto negli enormi investimenti della nostra società in fabbriche e attrezzature, ci si può servire di una pianificazione, di incentivi e di un’apposita legislazione. Ma il pieno accesso agli oggetti didattici resterà lettera morta fin quando le aziende potranno associare alle garanzie giuridiche che la Costituzione assicura a ogni privato cittadino il potere economico conferito loro da milioni di clienti e da migliaia di impiegati, azionisti e fornitori. Gran parte delle conoscenze tecniche del mondo e quasi tutti i processi produttivi sono chiusi entro le loro mura e restano inaccessibili sia a clienti, impiegati e azionisti, sia alla collettività in genere che pure, con le sue leggi e le sue agevolazioni, permette alle aziende di funzionare. Le somme che oggi nei paesi capitalistici si destinano alla pubblicità potrebbero essere indirizzate verso l’istruzione all’interno e da parte di una General Electric, di una NBC o della birra Budweiser. Vale a dire, gli stabilimenti e gli uffici dovrebbero essere riorganizzati così che le loro attività quotidiane divenissero più accessibili al pubblico, con modalità che rendessero possibile l’apprendimento; e si potrebbe anche trovare la maniera di pagare alle aziende ciò che la gente ne apprenderebbe.
Un ancor più prezioso complesso di oggetti e di dati scientifici può essere negato al pubblico – e persino allo scienziato qualificato – con il pretesto della sicurezza nazionale. Sino a tempi recenti la scienza era l’unico luogo d’incontro che pareva realizzare, nel suo funzionamento effettivo, i sogni degli anarchici: ogni persona capace di fare una ricerca aveva sostanzialmente le stesse possibilità di accedere agli strumenti necessari e di farsi ascoltare dalla comunità dei suoi pari. Oggi invece la burocratizzazione e l’organizzazione hanno escluso gran parte della scienza dalla portata del non addetto ai lavori. Quella che era una rete internazionale d’informazioni scientifiche si è frantumata trasformandosi in un’arena in cui combattono gruppi in concorrenza. I membri e i prodotti della comunità scientifica sono stati rinserrati in programmi nazionali o aziendali tesi a raggiungere risultati pratici, con un radicale impoverimento degli uomini che tengono in piedi le relative nazioni e aziende. In un mondo controllato e posseduto da stati e grandi aziende, non sarà mai possibile che un accesso limitato agli oggetti didattici. Ma un maggiore accesso a quegli oggetti al cui uso si può partecipare per fini didattici potrebbe illuminarci abbastanza per aiutarci ad abbattere queste estreme barriere politiche. Le scuole pubbliche trasferiscono la gestione dell’uso didattico degli oggetti dalle mani dei privati a quelle del professionista. L’inversione istituzionale delle scuole potrebbe permettere all’individuo di rivendicare il diritto di servirsene per la propria istruzione. Se si portasse al punto di estinzione il controllo privato o corporativo sull’aspetto didattico delle “cose”, potrebbe cominciare a emergere una forma di proprietà veramente pubblica.
Centrali delle capacità
Un insegnante di chitarra, a differenza di una chitarra, non può essere conservato in un museo, ne diventare proprietà pubblica, ne essere preso in affitto da una bottega di materiali didattici. Gli istruttori professionali appartengono insomma a una categoria diversa da quella degli oggetti necessari per acquisire una certa capacità. Ciò non significa che siano sempre indispensabili. lo posso per esempio noleggiare non solo una chitarra, ma anche lezioni di chitarra registrate su nastro e manuali illustrati degli accordi, e con queste cose sono in grado di imparare a suonare da solo. Anzi, questa soluzione può presentare dei vantaggi, se i nastri a disposizione sono migliori dei maestri reperibili, se ho tempo per imparare a suonare soltanto la sera tardi se i motivi che, vorrei saper eseguire non sono noti nel mio paese o se sono timido e preferisco maneggiare lo strumento senza testimoni.
Gli insegnanti professionali devono essere catalogati e contattati attraverso un canale differente da quello usato per gli oggetti. Un oggetto è – o potrebbe essere disponibile a richiesta di chi vuol servirsene, mentre una persona diventa realmente un mezzo di apprendimento solo quando acconsente ad esserlo, e può inoltre fissare e limitare a suo piacere gli orari, i luoghi e i metodi. Bisogna poi distinguerli dai coetanei dai quali si vorrebbe imparare. I coetanei che vogliono fare una ricerca insieme devono partire da interessi e capacità comuni: si riuniscono per praticare o migliorare una capacità che già posseggono, come giocare a pallacanestro, ballare, costruire un campeggio o discutere sulle prossime elezioni. Viceversa la prima trasmissione di una capacità professionale comporta il mettere assieme uno che ce l’ha già e uno che non ce l’ha e vuole acquisirla.
Un “dimostratore” è una persona che possiede una capacità ed è disposto a mostrare come la si esercita. Questa dimostrazione è spesso necessaria al discente potenziale. Le invenzioni moderne ci permettono di registrarla su un nastro, in un film o in un grafico e tuttavia è sperabile che continuino ad essere ampiamente richieste le dimostrazioni personali, specie per le capacità che concernono le comunicazioni. Nel nostro centro di Cuernavaca hanno già imparato lo spagnolo quasi diecimila adulti, in massima parte persone fortemente motivate, che volevano impadronirsi di una seconda lingua per parlarla con la massima disinvoltura possibile. Ora, quando hanno dovuto scegliere tra corsi minuziosamente programmati in laboratorio e una rigida routine di esercitazioni pratiche con altri due studenti e una persona di lingua spagnola, la grande maggioranza ha preferito la seconda soluzione.
Per moltissime tecniche largamente diffuse, la persona che ne dà una dimostrazione è la sola risorsa umana che ci occorra o che sia possibile trovare. Quando si tratta di parlare o di guidare, di far da mangiare o di servirsi dei mezzi di comunicazione, ci rendiamo appena conto di essere passati per una fase d’istruzione e d’apprendi mento formali, specie dopo le nostre prime esperienze in queste attività. Non vedo perché non si potrebbero imparare nello stesso modo tecniche più complesse, come gli aspetti meccanici della chirurgia e del violino, della lettura o l’uso di guide e cataloghi.
Uno studente che sia fermamente intenzionato a imparare e che non debba sormontare particolari ostacoli ha spesso bisogno, come unica assistenza umana, solo di una persona che possa mostrare a richiesta come si fa ciò che egli vuole apprendere. L’esigere dalle persone competenti il possesso di un diploma di pedagoghi prima che possano dare dimostrazione delle proprie capacità è frutto della pretesa o che la gente impari ciò che non desidera sapere o che tutti – compreso chi si trova in particolari situazioni di svantaggio – imparino certe cose in un determinato momento della loro vita, e preferibilmente in circostanze prefissate.
L’attuale scarsità di specialisti professionali nel mercato dell’istruzione è dovuta all’esigenza, da parte dell’istituzione, di impedire a chi sa dar dimostrazione di determinate tecniche di farlo, qualora non abbia ottenuto un attestato di fiducia pubblica mediante un diploma. Per noi è necessario che chi aiuta gli altri ad acquisire una capacità sia anche in grado di diagnosticare le difficoltà d’apprendimento e sappia ispirare negli altri il desiderio d’impadronirsi della loro capacità. Vogliamo insomma che sia un pedagogo. Una volta che avremo imparato a riconoscerle fuori della categoria degli insegnanti patentati, ci accorgeremo che”le persone in grado di fornire un’istruzione professionale sono numerose. Quando si tratta di insegnare a un principe è comprensibile, anche se non più sostenibile, che i genitori pretendano che l’insegnante e la persona tecnicamente preparata si associno in uno stesso individuo. Ma se tutti i genitori aspirassero ad avere un Aristotele per il loro Alessandro, finirebbero ovviamente delusi. Gli individui capaci di ispirare i propri allievi e di dare dimostrazione di una tecnica sono così rari, e così difficili da riconoscere, che il più delle volte persino ai principi capita un sofista anziché un vero filosofo.
Anche una richiesta di capacità poco comuni può essere rapidamente soddisfatta, persino quando è scarso n numero delle persone in grado di darne dimostrazione; bisogna però che queste persone siano reperibili con facilità. Negli anni quaranta i riparatori di radio, che in genere non avevano imparato a scuola il loro mestiere, erano in ritardo solo di due anni rispetto alla penetrazione degli apparecchi radio all’interno dell’America latina. E prosperarono fin quando le radio a transistor, che costano poco ma non sono riparabili, non li costrinsero a chiuder bottega. Oggi le scuole tecniche non riescono a realizzare ciò che quei ripara tori di apparecchi altrettanto utili e più duraturi sapevano fare senza difficoltà. Il fatto è che oggi una convergenza di interessi egoistici cospira per impedire a un uomo di far partecipi gli altri delle sue capacità. Chi ne è padrone trae profitto dalla scarsa diffusione della sua specialità e non dalla sua propagazione. L’insegnante che si specializza nel trasmettere una tecnica trae profitto dalla riluttanza dell’artigiano a lanciare in campo i propri apprendisti. Il pubblico è condizionato a credere che le capacità sono valide e degne di fiducia solo quando rappresentano il punto d’arrivo di un insegnamento formale. In quanto al mercato del lavoro, esso riposa sul fatto che le capacità siano poco diffuse e che vengano mantenute tali o vietandone l’uso e la trasmissione non autorizzati o fabbricando oggetti che possono essere fatti funzionare e riparati soltanto da chi ha accesso a utensili o informazioni disponibili in quantità minima.
Le scuole producono dunque una scarsità di personale qualificato. Un buon esempio è dato, negli Stati Uniti, dal numero sempre più esiguo delle infermiere, dovuto al rapido imporsi dei corsi quadriennali per il conseguimento di questo diploma. Le ragazze di famiglia povera, che una volta erano disposte a seguire corsi di due o tre anni, evitano ora completamente questa professione.
Il volere assolutamente degli insegnanti abilitati è un altro modo per garantire una scarsità di personale specializzato. Se si incoraggiassero le infermiere a formarne delle altre e se le si assumesse in base alla loro dimostrata capacità di fare un’iniezione, di compilare una cartella clinica e di somministrare una medicina, ben presto non ci sarebbe più deficienza di infermiere preparate. Oggi la richiesta di un diploma tende a limitare la libertà d’istruzione, trasformando il diritto di far partecipi gli altri delle proprie conoscenze, che è un diritto di tutti, nel privilegio della libertà accademica, oggi conferito soltanto ai dipendenti delle scuole. Per assicurare l’accesso a un effettivo scambio di capacità, abbiamo bisogno di leggi che estendano a tutti la libertà accademica. Il diritto di insegnare una tecnica dovrebbe essere protetto come parte integrante della libertà di parola. E una volta eliminate le restrizioni sull’insegnamento, spariranno in fretta anche quelle sull’apprendimento. Per offrire i suoi servizi a un allievo l’istruttore professionale ha bisogno di qualche incentivo. Ci sono almeno due metodi, entrambi semplicissimi, per incominciare a incanalare il denaro pubblico verso gli istruttori non diplomati. Il primo potrebbe essere l’istituzionalizzazione degli scambi di capacità con la creazione di liberi centri di preparazione tecnica aperti a tutti. Questi centri potrebbero e dovrebbero sorgere nelle zone industrializzate, soprattutto per quelle capacità che sono assolutamente necessarie a chi intenda avviarsi in certi settori: per esempio leggere, scrivere a macchina, tenere la contabilità, conoscere le lingue estere, programmare un computer ed elaborare i dati, comprendere linguaggi speciali come quello dei circuiti elettrici, saper maneggiare certi macchinari, ecc. Un’altra soluzione potrebbe essere quella di dare a certi gruppi della popolazione assegni di studio da spendere per la frequenza dei centri di preparazione tecnica, che per altri clienti sarebbero invece a pagamento, secondo tariffe commerciali. Un sistema molto più radicale sarebbe quello di creare una “banca” per gli scambi di capacità. Ogni cittadino otterrebbe una certa apertura di credito per l’acquisizione delle capacità fondamentali. Al di sopra di questo minimo, si aprirebbero crediti ulteriori a chi se li guadagnasse insegnando, sia nei centri organizzati sia in privato, a casa propria o in un campo di gioco. Solo chi avesse insegnato agli altri per una quantità di tempo equivalente avrebbe diritto al tempo di insegnanti più avanzati. Nascerebbe così un’elite completamente nuova, composta di individui che si sono guadagnati la loro istruzione facendone partecipi gli altri.
Dovrebbe essere consentito ai genitori di guadagnare crediti di questo tipo per i propri figli? Una simile possibilità darebbe un ulteriore vantaggio alle classi privilegiate; ma si potrebbe neutralizzarlo concedendo crediti maggiori a chi di privilegi non gode.
Per funzionare, uno scambio di capacità dovrebbe far capo a degli organismi aventi il compito di facilitare la raccolta di informazioni in appositi repertori e di assicurarne l’uso libero e gratuito. Un organismo del genere potrebbe anche prevedere servizi di controllo e di certificazione e contribuire all’applicazione delle leggi necessarie per sventare e prevenire le pratiche monopolistiche.
Fondamentalmente, la libertà di uno scambio universale di capacità deve essere garantita da leggi che consentano di discriminare unicamente sulla base delle capacità dimostrate e non in base a un pedigree scolastico. Una tale garanzia comporta inevitabilmente il controllo pubblico delle eventuali prove richieste per qualificare una persona nel mercato del lavoro: altrimenti sarebbe possibile reintrodurre furtivamente negli stessi luoghi di lavoro complessi sbarramenti di test, che favorirebbero una selezione di carattere sociale. Si potrebbe far molto per rendere obiettive le prove di capacità, per esempio consentendo soltanto quelle fatte su macchine e sistemi specifici; le prove di dattilografia (valutabili secondo la velocità, il numero di sbagli e la capacità o meno del candidato a scrivere sotto dettatura), quelle di padronanza d’un sistema di contabilità o dell’uso di una gru idraulica, di guida, di codificazione in Cobol, ecc. possono esser rese oggettive con estrema facilità.
Di fatto, molte delle capacità che hanno un’importanza pratica sono saggiabili in questa maniera. E per gli scopi di un direttore del personale il saggio dell’effettiva capacità posseduta al momento è molto più utile dell’informazione che il candidato, vent’anni prima, ha soddisfatto il suo insegnante al termine di un corso di studi che comprendeva stenografia, dattilografia e contabilità. Si può naturalmente contestare la necessità stessa delle prove ufficiali; io personalmente credo che una garanzia contro il rischio di offendere indebitamente la reputazione di un uomo appiccicandole un’etichetta sia assicurata meglio da una limitazione che da un divieto di queste prove.
Assortimento degli eguali
Nel peggiore dei casi, le scuole radunano dei compagni di corso in una stessa aula e li assoggettano a un’identica successione di dosi di matematica, educazione civica e ortografia. Nel migliore, permettono a ogni studente di scegliersi un piano di studi entro un campionario limitato. In ogni caso, comunque, si formano gruppi di eguali intorno agli obiettivi fissati dagli insegnanti. Un sistema didattico auspicabile dovrebbe invece lasciare che sia ciascun individuo a specificare l’attività per la quale cerca un partner.
La scuola indubbiamente offre ai bambini una possibilità di evadere da casa e di farsi nuovi amici. Ma, contemporaneamente, questo processo inculca in loro l’idea che debbano scegliersi gli amici tra coloro con i quali sono stati messi. Se invece si fornissero ai giovani, sin dalla più tenera età, stimoli a incontrare, valutare e cercare altra gente, si farebbe maturare in loro un interesse, destinato a prolungarsi tutta la vita, alla ricerca di nuovi collaboratori per iniziative nuove.
Un buon giocatore di scacchi è sempre lieto quando trova un avversario alla sua altezza, e un principiante quando può incontrarne un altro. È per questo che ci sono i circoli. Anche quelli che vogliono discutere su un libro o su un articolo particolare pagherebbero probabilmente qualcosa per avere degli interlocutori. E così chi vuoI giocare, fare un’escursione, costruire una vasca per pesci o applicare un motore a una bicicletta sarebbe pronto a darsi parecchio da fare per reperire persone con gli stessi interessi. Trovare questi eguali è il premio dei suoi sforzi. Le buone scuole cercano di far emergere gli interessi comuni degli studenti iscritti a uno stesso corso. Il contrario della scuola sarebbe un’istituzione che aumentasse le possibilità d’incontro tra le persone che in un determinato momento hanno un interesse specifico in comune, senza preoccuparsi che abbiano in comune anche dell’altro.
L’istruzione professionale, a differenza dell’assortimento degli eguali, non assicura gli stessi vantaggi a entrambe le parti. Ho già fatto notare che all’istruttore professionale bisogna di solito offrire qualche incentivo oltre alle soddisfazioni dell’insegnamento. Il suo lavoro consiste infatti nella continua ripetizione di certi esercizi che sono tanto più aridi quanto più un allievo ne ha bisogno. Perché possa aversi uno scambio di capacità occorrono dunque denaro, crediti o altri incentivi tangibili, anche quando lo scambio in se dovesse produrre una propria moneta. Un sistema di assortimento degli eguali non richiede invece simili incentivi, ma soltanto una rete di comunicazione.
I nastri, i sistemi di reperimento meccanico, l’istruzione programmata e la riproduzione di forme e suoni tendono a ridurre per molte tecniche la necessità di ricorrere a insegnanti in carne e ossa; questi sistemi aumentano l’efficienza degli insegnanti e il numero delle capacità che una persona può acquisire durante la sua vita. Parallelamente, si sviluppa il bisogno di incontrare persone con cui godersi le soddisfazioni della nuova capacità appena acquisita. Una studentessa che alla vigilia delle vacanze ha preso lingua greca, sarebbe felice al ritorno di discutere in greco sulla politica di Creta. Un messicano che vive a New York vorrebbe trovare altri lettori del giornale “Siempre”, o di “Los Agachados” che è il fumetto più popolare. Un altro invece amerebbe incontrare persone come lui desiderose di approfondire l’opera di James Baldwin o di Bolìvar.
Il funzionamento di una rete per l’assortimento degli eguali sarebbe semplice. L’utente dovrebbe fornire nome e indirizzo e descrivere l’attività per la quale cerca un partner. Un computer gli farebbe pervenire i nomi e gli indirizzi di tutti coloro che hanno presentato la stessa richiesta. È stupefacente che un servizio così elementare non sia mai stato usato su vasta scala per attività d’interesse pubblico.
Nella forma più rudimentale, le comunicazioni tra cliente e computer potrebbero avvenire a giro di posta. Nelle grandi città, dei terminali di telescriventi potrebbero fornire risposte immediate. L’unico modo per ottenere dal computer un nome e indirizzo sarebbe quello di indicare l’attività per la quale si cerca un partner. Le persone che si servissero del sistema sarebbero quindi note soltanto ai loro partner potenziali.
Un complemento del computer potrebbero essere una rete di albi murali e inserzioni sui quotidiani, segnalanti le attività per le quali il computer non fosse in grado di fornire un partner. Non ci sarebbe bisogno di dare il nome; i lettori interessati introdurrebbero allora il proprio nel sistema. Una rete di questo tipo, sovvenzionata con fondi pubblici, potrebbe essere il solo modo per dare concretezza alla libertà di riunione e per educare la gente all’esercizio di questa attività civica assolutamente fondamentale.
Il diritto alla libertà di riunione è da tempo riconosciuto sul piano politico e accettato sul piano culturale. Ma dobbiamo renderci conto che esso è limitato dalle leggi che rendono obbligatorie certe forme di riunione. È il caso, soprattutto, delle istituzioni che arruolano forzosamente in base all’età, alla classe o al sesso, e che assorbono grandi quantità di tempo. Un esempio è l’esercito. Un altro, ancor più scandaloso, la scuola. Descolarizzare significa abolire il potere di una persona di costringere un’altra a partecipare a una riunione. Significa anche riconoscere che ogni individuo, di qualunque età e sesso, ha il diritto di indire una riunione. Questo diritto è stato drasticamente limitato dalla istituzionalizzazione delle riunioni. In origine meeting l’equivalente inglese di “riunione” – indicava la conseguenza dell’atto individuale di incontrarsi con altri; oggi designa il prodotto istituzionale di una qualche organizzazione.
La capacità delle istituzioni-servizi di acquisire clienti ha superato di gran lunga la possibilità per gli individui di farsi sentire indipendentemente dai media istituzionali, i quali danno retta agli individui solo quando costituiscono una notizia vendibile. La rete per l’assorti mento degli eguali dovrebbe essere a disposizione di quanti vogliano radunare gente con la stessa facilità con cui un tempo la campana del villaggio convocava in assemblea la popolazione. Gli edifici scolastici – che sembra difficile convertire ad altri usi – potrebbero spesso servire a questo.
Può darsi infatti che tra non molto il sistema scolastico si trovi a dover affrontare un problema che si è, già posto alle chiese: che fare dello spazio superfluo rimasto vuoto per la defezione dei fedeli? Le scuole, come i templi, sono difficili da vendere. Un modo per far si che continuino a essere utilizzate sarebbe cedere lo spazio agli abitanti del quartiere. Ognuno potrebbe dichiarare ciò che intende fare in un’aula e quando, e un albo murale porterebbe a conoscenza degli interessati i programmi disponibili. L’accesso alle “classi” sarebbe gratuito, o pagabile con buoni-studio. Si potrebbe anche pagare l’“insegnante” in base al numero di allievi che sapesse attrarre per ogni periodo di due ore intere. Immagino che le figure preminenti di questo sistema sarebbero i giovani leader e i grandi educatori. Allo stesso metodo si potrebbe ricorrere anche per l’istruzione superiore, assegnando agli studenti dei buoni-studio, che dessero loro il diritto di consultare privatamente l’insegnante di loro scelta per dieci ore all’anno, mentre per il resto dei loro studi essi dipenderebbero dalla biblioteca, dalla rete per l’assortimento degli eguali e dall’apprendimento pratico.
Dobbiamo ovviamente ammettere la possibilità che di questi mezzi pubblici per favorire incontri si abusi a fini di sfruttamento o immorali, così come è accaduto col telefono e le poste. Anch’essi dunque, come quelle reti, hanno bisogno di qualche salvaguardia. Ho proposto altrove 1 un sistema d’incontri che consenta solo l’uso di informazioni pertinenti scritte, più il nome e l’indirizzo del richiedente. Un sistema del genere dovrebbe virtualmente garantire dagli abusi anche il più ingenuo. Altri accorgimenti potrebbero permettere di aggiungere indicazioni di libri, film, programmi televisivi o altri temi tratti da un particolare catalogo. Ma le preoccupazioni sui rischi del sistema non dovrebbero farci perdere di vista i suoi ben più grandi vantaggi. Alcuni che condividono il mio interesse per la libertà di parola e di riunione obietteranno che l’assortimento degli eguali è un mezzo artificiale per mettere assieme delle persone e non verrebbe mai usato dai poveri, cioè da quelli che ne hanno più bisogno. C’è chi si turba sinceramente dinanzi alla proposta di facilitare incontri ad hoc che non affondino le loro radici nella vita di una comunità locale. E c’è chi si ribella alla proposta di usare un computer per classificare e assortire gli interessi indicati dagli utenti. Non è possibile, dicono, mettere assieme della gente in un modo così impersonale. Un’indagine comune deve essere radicata in una storia di esperienze condivise a molti livelli e deve sgorgare da queste esperienze: per esempio, dallo sviluppo delle istituzioni di quartiere.
Capisco queste obiezioni, ma credo che non colgano il punto fondamentale del mio discorso, oltre che del loro. In primo luogo, il ritorno alla vita di quartiere come centro primario dell’espressione creativa potrebbe di fatto ostacolare la restaurazione dei quartieri come unità politiche. Concentrando le richieste sul quartiere si potrebbe infatti trascurare un importante aspetto liberatorio della vita urbana: la possibilità per una persona di partecipare simultaneamente a diversi gruppi di eguali. Inoltre, ed è molto importante, individui che non hanno mai vissuto assieme in una comunità fisica possono in certi casi aver molte più esperienze da mettere in comune che non gente che si frequenta sin dall’infanzia. Le grandi religioni hanno sempre riconosciuto l’importanza di questi incontri in terre lontane, e per mezzo di essi i fedeli hanno sempre trovato la libertà: i pellegrinaggi, il monachesimo, lo scambio di aiuti fra i templi e i santuari riflettono appunto questa consapevolezza. L’assortimento degli eguali potrebbe contribuire in misura significante a rendere esplicite le molte comunità potenziali ma represse della città.
Certo le comunità locali sono preziose, ma sono anche una realtà che va scomparendo man mano che gli uomini lasciano alle istituzioni-servizi il compito di definire i loro giri di rapporti sociali. Milton Kotler in un libro recente3 ha dimostrato che l’imperialismo del “centro città” svuota il quartiere della sua importanza politica. Il tentativo protezionistico di far risorgere il quartiere come unità culturale non fa che rafforzare questo imperialismo burocratico. Lungi dal sottrarre artificialmente gli uomini ai loro contesti locali per inserirli in raggruppamenti astratti, l’assortimento degli eguali dovrebbe favorire la restaurazione di una vita locale nelle città dove ora essa sta scomparendo. Un uomo che ritrova l’iniziativa per invitare i suoi simili a conversazioni significanti può benissimo smettere di accettare d’essere separato da loro a causa del protocollo d’ufficio o dell’etichetta dei quartieri residenziali. Una volta constatato che per far qualcosa assieme basta decidere di volerlo fare, può anche accadere che la gente chieda una maggiore apertura delle proprie comunità locali a uno scambio politico creativo.
Dobbiamo riconoscere che la vita urbana tende a diventare immensamente costosa, nella misura in cui gli abitanti delle città devono imparare a contare per la soddisfazione di ogni loro bisogno su complessi servizi istituzionali. Mantenere tutto questo a un livello sia pur minimo di sopportabilità è estremamente dispendioso. L’ assortimento degli eguali potrebbe essere un primo passo per porre fine alla dipendenza dei cittadini dai servizi civici burocratici.
Sarebbe anche un passo importante verso la scoperta di nuovi criteri sui quali basare la pubblica fiducia. In una società scolarizzata, nel decidere di chi possiamo o non possiamo fidarci, siamo arrivati a dare sempre più credito al giudizio professionale degli educa tori sui risultati della propria opera: andiamo cioè dal medico, dall’avvocato o dallo psicologo perché crediamo che chiunque abbia ricevuto la dose richiesta di trattamento didattico specializzato da altri colleghi meriti la nostra fiducia.
In una società descolarizzata, i professionisti non potrebbero più pretendere la fiducia dei loro clienti in base alloro pedigree scolastico, o proteggere il loro prestigio facendo semplicemente il nome di altri professionisti che hanno approvato i loro studi. Anziché riporre fiducia nei professionisti, un cliente potenziale dovrebbe in qualunque momento poter consultare altre persone che si sono già servite di un determinato professionista e chiedere loro se ne sono rimaste soddisfatte, mediante un’altra rete per incontri tra eguali facilmente realizzabile con un computer o con vari altri mezzi. Queste reti potrebbero essere concepite come dei servizi pubblici, destinati a permettere agli studenti di scegliersi i loro insegnanti e ai pazienti di scegliersi i propri guaritori.
Educatori professionisti
Man mano che i cittadini avranno nuove possibilità di scelta e nuove occasioni per imparare, dovrebbe aumentare il loro desiderio di cercarsi qualcuno che li guidi. C’è da ritenere che sentiranno sempre più profondamente sia la gioia della propria indipendenza sia la necessità di una guida. Liberati dalle altrui manipolazioni, dovrebbero imparare a trarre profitto dal sapere che gli altri hanno acquisito in tutta una vita. Un’istruzione descolarizzata dovrebbe non soffocare, ma intensificare la ricerca di uomini provvisti di sapienza pratica e disposti ad aiutare il novizio nella sua avventura educativa. Quando i docenti delle varie discipline non pretenderanno più di essere degli informatori o modelli di rango superiore, la loro pretesa di possedere una sapienza superiore comincerà ad apparire autentica. Aumentando la richiesta di maestri, dovrebbe aumentare anche l’offerta. Con la scomparsa del professore di scuola si avrà una situazione che dovrebbe favorire la,
vocazione dell’educatore indipendente. Questa può sembrare una contraddizione in termini tanto i concetti di scuola e di insegnante sono divenuti complementari; eppure è esattamente a questo risultato che tenderebbe lo sviluppo dei primi tre tipi di scambi didattici – e ciò che la loro piena utilizzazione richiederebbe – perché i genitori e gli altri “educatori naturali” hanno bisogno di una guida, i discenti hanno bisogno di assistenza e le reti hanno bisogno di gente che le faccia funzionare. Ai genitori occorre una guida per poter indirizzare i propri figli sul cammino che conduce a un apprendimento indipendente e responsabile; ai discenti occorre una direzione esperta quando incontrano un terreno accidentato. Sono due bisogni ben distinti: il primo è un bisogno di pedagogia, il secondo di una direzione intellettuale in tutti gli altri campi del sapere. Il primo esige una conoscenza dell’apprendimento umano e delle risorse didattiche, il secondo una sapienza basata sull’esperienza d’ogni tipo di ricerca. Entrambe queste esperienze sono indispensabili per uno sforzo educativo efficace. La scuola mescola le due funzioni in un unico ruolo, col risultato di rendere sospetto, se non addirittura indecoroso, l’esercizio indipendente di una sola di esse.
In pratica, bisognerebbe distinguere tre tipi di competenze didattiche: quella di creare e far funzionare le centrali o reti educative presentate in queste pagine; quella di guidare studenti e genitori all’uso delle reti; e quella di agire come primus inter pares nell’affrontare ardui viaggi di esplorazione intellettuale. Soltanto le prime due possono essere concepite come rami di una professione indipendente: i funzionari didattici e i consulenti pedagogici. Per progettare e far funzionare le reti che ho descritto non occorrerebbe molta gente, ma ci vorrebbero persone capaci di capire a fondo i problemi didattici e amministrativi, in una prospettiva molto diversa e anzi addirittura opposta a quella delle scuole.
Una categoria professionale di educatori indipendenti di questo tipo, mentre accoglierebbe molte persone che le scuole escludono, ne escluderebbe molte che le scuole invece abilitano. La costituzione e il funzionamento delle reti didattiche richiederebbero sì progettisti e gestori, ma non nella quantità e del tipo di cui ha bisogno oggi l’amministrazione scolastica. Nelle reti da me descritte, infatti, il mantenimento della disciplina studentesca, le relazioni pubbliche, l’assunzione, il controllo e il licenziamento degli insegnanti non troverebbero posto ne avrebbero un equivalente. Così pure la preparazione dei programmi dei corsi, la scelta dei libri di testo, la manutenzione dei terreni e delle attrezzature o la supervisione delle gare sportive tra le varie scuole. E nemmeno la custodia dei ragazzi, la preparazione delle lezioni e la compilazione dei registri, attività che oggi occupano tanta parte del tempo degli insegnanti, figurerebbero tra i compiti degli addetti alle reti didattiche. Invece la gestione delle trame dell’apprendimento richiederebbe alcune capacità e doti che oggi si richiedono al personale di un museo, di una biblioteca, di un’agenzia di collocamento, o al maitre d’hotel.
Oggi ai funzionari scolastici tocca sorvegliare insegnanti e studenti per dare soddisfazione ad altra gente: consiglieri d’amministrazione, parlamentari, dirigenti di grandi aziende. I creatori e i gestori delle reti dovrebbero invece dar prova del proprio ingegno sottraendo se stessi, e gli altri, al controllo di terzi e facilitando gli incontri tra studenti, dimostratori, consulenti e oggetti didattici. Molte persone che oggi si sentono attratte dall’insegnamento sono profondamente autoritarie e non potrebbero mai assumersi questo compito: creare delle centrali d’istruzione significa infatti facilitare alla gente, e soprattutto ai giovani, il perseguimento di obiettivi che potrebbero anche contraddire gli ideali del “direttore del traffico” che rende possibile tale perseguimento.
Costituendosi le reti da me descritte, toccherebbe a ogni studente la scelta del proprio itinerario didattico che solo retrospettivamente assumerebbe le caratteristiche di un programma riconoscibile come tale. Lo studente intelligente cercherebbe però ogni tanto un consiglio professionale: un aiuto per fissarsi un nuovo obiettivo, lumi per capire le difficoltà incontrate, indicazioni per scegliere tra vari metodi possibili. Già adesso i più ammetterebbero che i servizi più importanti resi loro dagli insegnanti sono stati appunto i consigli o suggerimenti di questo tipo, forniti in incontri casuali o in qualcuno dei periodici colloqui di routine. In un mondo non scolarizzato anche i pedagoghi riacquisterebbero la loro autentica funzione, e riuscirebbero a fare ciò che oggi presumono di proporsi gli insegnanti frustrati. Mentre gli amministratori delle reti si dedicherebbero soprattutto alla costruzione e manutenzione delle vie d’accesso alle risorse, il pedagogo aiuterebbe lo studente a trovare il cammino atto a portarlo il più rapidamente possibile alla sua meta. Se uno studente volesse imparare il cantone se parlato da un suo vicino cinese, il pedagogo sarebbe li per giudicare i loro progressi e per aiutarli a scegliere il manuale e il metodo più adatti alle loro capacità, alloro carattere e al tempo che possono dedicare a questo studio. All’aspirante meccanico aeronautico potrebbe consigliare i luoghi migliori in cui fare il suo apprendistato. A chi si stesse preparando per una discussione sulla storia dell’Africa potrebbe dare indicazioni bibliografiche. Come l’amministratore della rete, anche il consulente pedagogico andrebbe considerato un educatore di professione; per servirsi dell’uno e dell’altro si potrebbero utilizzare buoni-studio.
La funzione dell’iniziatore didattico o maestro o “vera” guida è un po’ più difficile da definire di quella dell’amministratore o del pedagogo. Questo perché è difficile definire il concetto stesso di guida. In pratica, un individuo è una guida se gli altri seguono le sue iniziative e ne diventano discepoli nel corso delle sue progressive scoperte. Spesso ciò implica una visione profetica di criteri di giudizio completamente nuovi – molto comprensibile al giorno d’oggi – per cui ciò che adesso è “sbagliato” risulterà essere “giusto”. In una società che, grazie all’assortimento degli eguali, onorasse il diritto di indire assemblee, le possibilità di prendere iniziative didattiche su un determinato argomento sarebbero vaste quanto quelle di accedere all’apprendimento; ma naturalmente c’è una grande differenza tra chi è in grado di indire una riunione per discutere fruttuosamente di questo libro e chi sa guidare gli altri a un’esplorazione sistematica delle sue implicazioni.
Per essere una guida, inoltre, non serve aver ragione. Come fa osservare Thomas Kuhn, in un periodo nel quale i paradigmi mutano continuamente, quasi tutte le guide più rispettate rischiano, alla luce del senno di poi, di apparire in torto. La funzione di guida intellettuale dipende piuttosto da una disciplina e da un’immaginazione intellettuale superiori e dalla disponibilità ad associarsi con altri nell’esercitarle. Un discente, per esempio, può pensare che esista un’analogia tra il movimento antischiavistico degli Stati Uniti o la rivoluzione cubana e ciò che sta ora accadendo a Harlem. L’educatore, se è anche uno storico, può mostrargli come cogliere i punti deboli di una simile analogia. Può ripercorrere a suo beneficio il proprio cammino di storico. Può invitare il discente a partecipare alla sua ricerca. In tutti questi casi inizierà il suo allievo a una consapevolezza critica che è rarissima nella scuola e che non è acquistabile con il denaro o con altri favori.
Questo rapporto tra maestro e discepolo non esiste soltanto nelle discipline intellettuali, ma ha i suoi equivalenti nelle arti, nella fisica, nella religione, nella psicoanalisi e nella pedagogia. Funziona inoltre per l’alpinismo, per la lavorazione dell’argento e la politica, per l’ebanisteria e la direzione del personale. Ciò che caratterizza tutti i rapporti autentici tra maestro e allievo è la consapevolezza comune a entrambi che si tratta d’una relazione letteralmente senza prezzo e che, in maniere molto diverse, costituisce un privilegio per tutti e due.
I ciarlatani, i demagoghi, i propagandisti zelanti, i maestri corrotti, i preti simoniaci, gli imbroglioni, gli operatori di miracoli e i messia si sono rivelati capaci di assumere funzioni di guida e ci mostrano in tal modo i rischi insiti nella dipendenza del discepolo dal suo maestro. Per difendersi da questi falsi insegnanti le diverse società hanno preso provvedimenti diversi: gli indiani si affidavano alla divisione in caste, gli ebrei d’oriente al discepolato spirituale dei rabbini, il cristianesimo dei grandi periodi a una vita esemplare di virtù monastica, quello di altre epoche all’ordinamento gerarchico. La nostra società si rimette ai diplomi rilasciati dalle scuole. È dubbio che questo metodo assicuri un vaglio migliore, ma, se anche lo si sostenesse, si potrebbe sempre controbattere che lo fa a spese del rapporto personale maestro-discepolo, che quasi scompare.
Nella pratica sarà sempre difficile distinguere tra l’istruttore professionale e la guida didattica sopra descritta, e nulla in realtà esclude che l’incontro con certe guide possa avvenire scoprendo un “maestro” nell’istruttore professionale che inizia gli studenti alla sua disciplina. D’altro canto ciò che distingue il rapporto autentico tra maestro e discepolo è il suo carattere gratuito. Aristotele ne parla come di “una specie di amicizia morale, che non si fonda su patti stabiliti: si fa un dono, o qualunque altra cosa, come lo si farebbe a un amico”. Tommaso d’Aquino dice, di questo tipo d’insegnamentO, che non può non essere un atto d’amore e di carità. È sempre un lusso per l’insegnante e una forma di svago (schole in greco) per lui e per il suo allievo: un’attività piena di significato per tutti e due, ma che non si propone ulteriori obiettivi.
È ovvio, persino nella nostra società, che per un’autentica guida intellettuale si deve contare sulle persone dotate desiderose di prestarla; ma oggi non si può farne una linea politica. Dobbiamo prima costruire una società dove gli atti personali riacquistino un valore superiore a quello della fabbricazione delle cose o della manipolazione della gente. In una società del genere un insegnamento esplorativo, inventivo, creativo verrebbe logicamente considerato una delle forme più desiderabili di una serena “disoccupazione”. Non dobbiamo però attendete l’avvento dell’utopia. Già oggi una delle conseguenze più importanti della descolarizzazione e della creazione di attrezzature per l’assortimento degli eguali sarebbe la possibilità offerta ai “maestri” di prendere l’iniziativa per riunire discepoli congeniali. Inoltre, come già abbiamo visto, i potenziali discepoli avrebbero ampie possibilità di scambiarsi informazioni o di scegliersi un maestro.
Le scuole non sono le sole istituzioni che snaturino le professioni incasellandole in determinati ruoli. Gli ospedali rendono sempre più impossibile il curarsi in casa, e poi giustificano l’ospedalizzazione come un vantaggio per il malato. Nello stesso tempo, per il medico, la legittimità e la possibilità di lavorare vengono a dipendere in misura sempre maggiore dal suo ingresso nei ruoli di un ospedale, anche se la sua dipendenza è tuttora meno totale di quella degli insegnanti rispetto alla scuola. Lo stesso può dirsi dei tribunali, che sovraffollano i loro calendari man mano che nuove forme di transazione assurgono a solennità giuridica, e ritardano in tal modo l’applicazione della giustizia. O ancora delle chiese, che riescono a fare di una vocazione libera una professione forzata. Il risultato, in ognuno di questi casi, è sempre lo stesso: un servizio carente a costi più elevati e maggiori entrate per i membri della professione fieno preparati.
Sarà difficile riformare le professioni più antiche fin quando monopolizzeranno i livelli più alti di reddito e di prestigio. Riformare quella dell’insegnante dovrebbe essere invece più facile, e non soltanto perché ha origini più recenti. La professione didattica rivendica oggi un monopolio globale: pretende la competenza esclusiva a formare non soltanto i propri apprendisti ma anche quelli delle altre professioni. Questa sovraespansione la rende vulnerabile da qualunque professione che reclami il diritto di preparare i propri apprendisti. Inoltre gli insegnanti sono pagati malissimo e risentono tutta la frustrazione derivante dal rigido controllo del sistema scolastico. I più intraprendenti e dotati fra loro, se si specializzassero come dimostratori, amministratori di reti o consulenti pedagogici, troverebbero probabilmente un lavoro più congeniale, una maggiore indipendenza e anche guadagni più alti.
Infine, l’attuale dipendenza dello studente dal professore può essere infranta più facilmente di quella, per esempio, del degente in ospedale dal suo medico. Se la scuola cessasse di essere obbligatoria, agli insegnanti che ripongono la propria soddisfazione nell’esercizio dell’autorità pedagogica in aula rimarrebbero soltanto gli allievi che si sentissero attratti dai loro metodi. Lo smantellamento della nostra attuale struttura professionale potrebbe cominciare con l’emarginazione del professore. Lo smantellamento dell’istituzione scolastica è ormai inevitabile, e si verificherà molto prima di quanto si pensi. Non si può più infatti rimandarlo di molto, e non è neanche necessario dare una forte spinta a provocarlo perché questo viene già fatto. Piuttosto sarebbe opportuno cercare di orientarlo in una direzione promettente, dal momento che potrebbe ancora attuarsi in due maniere diametralmente opposte.
Da un lato potremmo assistere a un allargamento del mandato del pedagogo e a un conseguente accrescimento del suo controllo sulla società, anche fuori della scuola. Con le migliori intenzioni e con la semplice estensione della retorica oggi in uso nella scuola, l’attuale crisi scolastica potrebbe fornire agli educatori un pretesto per servirsi di tutte le reti della società contemporanea al fine di incanalare verso di noi i loro messaggi, s’intende per il nostro bene. La descolarizzazione, che è comunque inarrestabile, significherebbe in tal caso l’avvento di un “mondo nuovo” huxleyano, dominato dai ben intenzionati gestori dell’istruzione programmata.
Da un altro lato, la crescente consapevolezza dei governi, oltre che degli imprenditori, dei contribuenti, dei pedagoghi illuminati e degli amministratori scolastici, che l’organizzazione degli studi finalizzata al conseguimento di un diploma è divenuta dannosa, potrebbe offrire a grandi masse di gente una straordinaria possibilità: quella di preservare il diritto di accedere su un piede di eguaglianza agli strumenti che permettono sia di apprendere sia di rendere partecipi gli altri di ciò che si conosce o si crede. Ma per questo bisognerebbe che la rivoluzione dell’istruzione fosse guidata da certi obiettivi:
1. Liberare l’accesso alle cose, sopprimendo il controllo che oggi persone e istituzioni esercitano sui loro valori didattici.
2. Liberare la trasmissione delle capacità, riconoscendo a chi ne faccia richiesta la libertà di insegnarle o esercitarle.
3. Liberare le risorse critiche e creative della gente, restituendo ai singoli la possibilità di indire e tenere riunioni, possibilità che oggi è sempre più monopolizzata da istituzioni che pretendono di parlare in nome di tutti.
4. Liberare l’individuo dall’obbligo di adattare le proprie aspettative ai servizi offerti da una professione costituita, fornendogli la possibilità di attingere dall’esperienza dei suoi eguali e di affidarsi all’insegnante, alla guida, al consulente o al guaritore da lui stesso scelto. La descolarizzazione della società farà inevitabilmente sbiadire le distinzioni tra economia, istruzione e politica sulle quali si fondano oggi la stabilità dell’ordine mondiale e quella delle singole nazioni.
La revisione delle istituzioni didattiche ci porta a rivedere anche la nostra concezione dell’uomo. La creatura che serve alla scuola come cliente non ha ne l’autonomia ne la spinta per maturare per conto proprio. Possiamo riconoscere nella scolarizzazione universale il punto culminante di un’impresa prometeica, e parlare della soluzione alternativa come di un mondo nel quale possa vivere l’uomo epimeteico. Ma se possiamo specificare che l’alternativa agli imbuti scolastici è un mondo reso trasparente da trame di autentica comunicazione, e se si può precisare con estrema concretezza come esse potrebbero funzionare, per quanto concerne la natura epimeteica dell’uomo possiamo soltanto aspettare che riemerga, non programmarla o produrla.
1 Office of Economic Opportunity (USA).
2 I Young Lords (Giovani signori) sono un’organizzazione di giovani portoricani di sinistra, [N,d,T,]
3 Neighborhood Governments: The local foundation of political life, Bobbs-Merril, New York 1969.