Dalla Carta d’Amiens e dal Congresso di Amsterdam ad oggi: Autonomia, indipendenza e autosufficienza del sindacalismo rivoluzionario
Può sembrare anacronistico, in tempi gravi e drammatici come quelli che viviamo, richiamare documenti e dibattiti di più di un secolo fa. Tuttavia siccome vertevano su un tema fondamentale per il sindacalismo rivoluzionario (e in seguito l’anarcosindacalismo) che ancora oggi è dirimente per le sue possibilità di sviluppo e di affermazione, è di forte interesse riprendere quel documento è quel dibattito.
La “Carta d’Amiens”, documento basilare del sindacalismo rivoluzionario francese fu redatto dall’allora segretario della CGT, Victor Griffuelhes nel Congresso del 1906 e stabiliva la totale autonomia del sindacato dalle organizzazioni e partiti politici, concedendo agli aderenti libertà d’agire al di fuori dell’organizzazione sindacale rivoluzionaria, in funzione delle proprie peculiarità politiche, purché mantenessero l’unità d’intenti rivoluzionaria all’interno del sindacato (per il testo integrale cfr. «Lotta di Classe» n. 111 del giugno-luglio 2009). A chiare lettere dunque si rivendicava l’autosufficienza del sindacato rivoluzionario, la sua capacità di essere soggetto e progetto rivoluzionario complessivo, senza “tutele” politiche, né, tantomeno, dirigenze esterne.
Circa un anno dopo, nel congresso internazionale anarchico di Amsterdam, proprio su temi analoghi si sviluppò un duro confronto tra Errico Malatesta e Pierre Monatte, uno dei più importanti esponenti sindacalisti rivoluzionari della CGT francese. Il loro dissidio verté proprio sull’autosufficienza del sindacato rivoluzionario. Mentre Monatte la difese a spada tratta, Malatesta attaccò quella che secondo lui era la debolezza delle teorie sindacaliste (o meglio pansindacaliste) che pretendevano di concentrare nel sindacato rivoluzionario compiti e funzioni di diversa natura e la loro insufficienza a fondare una strategia, appunto, rivoluzionaria.
Semplificando, Malatesta chiese come fosse possibile attribuire a un sindacato (che per quanto radicale sia, è, comunque, per sua natura “riformista”) la capacità di sovvertire l’ordinamento economico e sociale esistente in una prospettiva rivoluzionaria. Questo errore, secondo Malatesta, sarebbe derivato da una concezione economicista e troppo semplicista della classe degli sfruttati, identificata tout-court con il proletariato di fabbrica.
Malatesta dichiarò infine:
“Io sono, oggi come ieri, un sindacalista, nel senso che sono un sostenitore dei sindacati. Non chiedo dei sindacati anarchici che giustificherebbero, dei sindacati socialdemocratici, repubblicani, realisti o d’altro tipo e sarebbero, tutt’al più, capaci di dividere più che mai la classe operaria contro se stessa. Non voglio nemmeno dei sindacati rossi, perché non voglio dei sindacati gialli. Al contrario, voglio dei sindacati aperti a tutti i lavoratori senza distinzione di opinioni, dei sindacati assolutamente neutri”
Col senno dell’oggi e la lezione della storia, gli errori di Malatesta sono evidenti:
Il primo è quello di assimilare il sindacalismo rivoluzionario ad altre forme organizzative sindacali, parlando genericamente di pansindacalismo;
Il secondo, conseguente, è quello di negare le peculiarità delle teorie e delle pratiche sindacaliste rivoluzionarie;
Il terzo è quello di attribuire al sindacalismo rivoluzionario la specificità di sindacalismo anarchico;
Il quarto è infine ritenere che la concezione sindacalista rivoluzionaria si attagliasse esclusivamente al proletariato di fabbrica, si incaricherà l’esperienza spagnola di dimostrare il contrario.
Quella di Malatesta, a ben vedere, non è altro che la concezione del sindacato come cinghia di trasmissione dell’organizzazione rivoluzionaria (sia essa il partito anarchico o quello leninista, con le dovute distinzioni). C’è un “indifferentismo” sindacale che tutto appiattisce e che, in ultima analisi, nega le capacità “politiche” (in senso proudhniano) del proletariato. Quel proletariato che storicamente tutto ha costruito, comprese le proprie forme di organizzazione di difesa economica e di progetto di emancipazione sociale. Ma Malatesta – grande pensatore, agitatore, polemista e uomo d’azione – è “figlio” di Bakunin e dunque della tradizione anarchica “politicista” e “complottista”. In una parola il côté politico è determinante e prevale sull’accessoria attività sindacale.
Questa “divisione del lavoro” tra politico e sindacale finisce per prevalere a partire dalla guerra di Libia del 1911 (per quanto riguarda l’Italia) e la tragedia della Prima guerra mondiale che provocano l’esodo dalle organizzazioni sindacaliste rivoluzionarie di diversi e importanti militanti e dirigenti (per quanto riguarda l’USI, nel 1912 i teorici Labriola e Orano, nel 1914 gli organizzatori fratelli De Ambris, Ciardi e Masotti) affascinati dal mito della guerra come levatrice della rivoluzione.
La visione che si afferma all’interno delle più importanti organizzazioni sindacali rivoluzionarie è quella anarcosindacalista, in Italia come in Spagna. Gli anarchici assumono il pieno controllo e la dirigenza di USI e CNT. Si instaura appieno una duplicità organizzativa: UAI e USI in Italia (a partire dal 1920), CNT e FAI in Spagna (a partire dal 1927). La riprova del peso preponderante degli anarchici è data, per quanto riguarda l’USI dalla nomina di Armando Borghi a segretario. Lui stesso si definiva un anarchico “prestato” al sindacato. Ci sarebbero stati valenti organizzatori (come Alibrando Giovannetti che anarchico non era) che probabilmente avrebbero interpretato quel ruolo con maggiore efficacia.
Ma andiamo all’oggi e il passo non è così lungo come sembra. La duplicità organizzativa è quasi scontata. Sia in campo anarchico e libertario che in generale è abbastanza diffusa la doppia militanza. Come esempio che ci riguarda direttamente, consideriamo il caso della FAI (costituita nel Congresso di Carrara nel 1945) e l’USI (ricostituita , sempre a Carrara, nel 1950 e riattivata a fine anni ‘70). Le alterne vicende del secondo dopoguerra del movimento libertario nel suo complesso conducono ad un quadro odierno che possiamo così semplificare: l’unica componente politica importante all’interno dell’Unione Sindacale è quella anarchica e in questa, la presenza dei militanti FAI è la più significativa.
Ma ciò cosa implica? Un valore aggiunto a salvaguardia dei principi libertari, federalisti e autogestionari dell’Unione? Oppure un depotenziamento della complessività del progetto sindacalista libertario e rivoluzionario, perché una sua parte viene assegnata dagli anarchici ad un campo d’intervento specifico e politico? Oppure ancora un condizionamento dell’autonomia e dell’indipendenza del sindacato?
Possiamo scartare l’ultima ipotesi per due motivi: il primo è il fatto che la Federazione Anarchica è organizzazione di sintesi e non di tendenza, dunque non è titolare né di un progetto, né di una strategia unitaria e quindi ha ben poco da esportare in funzione di condizionamento; il secondo è la sostanziale grande correttezza della maggioranza dei compagni della Federazione, se altri comportamenti vengono espressi non fanno parte delle normali relazioni fra compagni ma attengono a patologie psicologiche nei confronti delle quali bisogna adottare adeguate profilassi.
Detto questo, è un dato di fatto che le prime due ipotesi formulate possono coesistere. Gli anarchici (aderenti alla FAI o no) possono salvaguardare valori e principi libertari all’interno del nostro sindacato, però a patto di non dimenticare due cose: la prima è che l’USI non può e non deve essere un sindacato anarchico, pena il suo snaturamento, ma un’organizzazione rivoluzionaria, fondata sull’azione diretta, libertaria, autogestionaria, mutualista e federalista aperta a tutti quelli che si riconoscono nei suoi principi e le sue pratiche; la seconda è che il sindacalismo libertario e rivoluzionario aspira ad essere una critica e un progetto complessivi, nella contrapposizione radicale all’esistente e nella costruzione, fin da oggi, degli embrioni della società futura. Non ha bisogno d’altro. Solo della propria indipendenza, della propria autonomia e dell’aiuto di tutti coloro che queste rispettano.
Guido Barroero
2 comments for “Autonomia, indipendenza e autosufficienza del sindacalismo rivoluzionario”