SCONFITTA DEL SINDACALISMO ROSSO: I SINDACATI ECONOMICI E LO “SCIOPERO FASCISTA”

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Le scelte per convertire e ridimensionare le aziende ausiliarie, soppresse dal 1919[1], comportano, oltre l’espulsione della manodopera, la disattesa di ogni speranza per i congedati. Ripristinate le libertà sindacali, il sistema non è capace di ricomporre lo schema triangolare di gestione a livello di compromesso politico[2]. Il panorama sindacale italiano è ora composto da CGdL, USI, UIdL e dalla cattolica CIL. (Confederazione Italiana dei Lavoratori).

Il dopoguerra, segnato da agitazioni, vede – dopo la chiusura per consunzione della Camera del lavoro aretina – un ritorno al protagonismo dei sindacati, specie di quelli d’orientamento rivoluzionario o cattolico (come nel caso della Federazione Agricola Valdarnese). La ricostituita Camera del lavoro, d’indirizzo “confederalista” (CGdL), pare sempre più influenzata dalle realtà circostanti: le leghe rosse della Valdichiana in lotta per il Patto colonico; il Sindacato minatori USI del Valdarno alla conquista della giornata di sei ore e mezzo. Chiusa l’epoca della gestione “burocratica” Puglioli, l’ente camerale vede alternarsi alla segreteria, nel 1919-‘21, dirigenti della sinistra rivoluzionaria[3].

Intanto il sindacalismo libero è vittima predestinata di violenze fasciste e persecuzioni, della chiusura di giornali e sedi operaie, ben prima della fatidica marcia su Roma. Il caso della Camera del lavoro di Arezzo è emblematico: prima l’assalto squadrista (nell’ambito d’una “spedizione punitiva”), poi lo sfratto dai locali di proprietà comunale[4]. Dal marzo 1923 i locali, che furono della Camera del lavoro, saranno occupati dalla sede provinciale della Confederazione Nazionale delle Corporazioni. Confederazione legata al PNF, fondata nel 1922 dai seguaci di Edmondo Rossoni, che ha nel suo programma: il carattere unitario della produzione; l’eliminazione della lotta di classe; la subordinazione di tutto all’interesse della Nazione. Ad essa si contrappone invano l’Alleanza del Lavoro, promossa dal Sindacato Ferrovieri, su cui confluiscono le forze sindacali antifasciste: CGdL, USI, la UIdL decimata dall’esodo dei filofascisti rossoniani, la Federazione lavoratori dei porti. Come si può vedere anche nello schieramento antifascista è ben rappresentato il sindacalismo nazionale, nelle sue declinazioni più variegate.

La Mineraria e la ferriera ILVA avevano colto l’occasione dei drammatici episodi di guerra civile del 1921 per dichiarare la serrata, per far pagare ai lavoratori il prezzo della crisi industriale[5]. Stessa situazione alla Sacfem dove, a seguito dell’occupazione del settembre 1920, si procedeva in pochi mesi all’annientamento dei quadri sindacali USI e FIOM[6].

Nella smobilitazione del sindacalismo rosso si era costituita, a San Giovanni (maggio 1921), una camera della Confederazione Italiana Sindacati Economici (CISE). La nuova CISE registra un rapido successo in Ferriera con 700 iscritti al sindacato metallurgici, fra cui ex quadri FIOM della commissione interna, sindacalisti rivoluzionari come Mario Bartoli[7]. Meno precipitosi i minatori. Solo ad agosto questa organizzazione potrà costituire un primo nucleo nelle miniere con 150-200 iscritti. Il prefetto appoggia lo sforzo della CISE per sottrarre la massa operaia all’influenza sovversiva[8]. Dopo due mesi di serrata il rientro al lavoro: “…gli operai accettarono la diminuzione delle paghe senza dar luogo ad agitazioni”[9]. La riapertura delle miniere, con un organico ridotto, è rivendicata come un successo dei Sindacati Economici[10]. Le pesanti condizioni per la riassunzione sono accettate senza convinzione. La CISE promuove un’interminabile vertenza. Rimane aperto il problema della stipula di un nuovo contratto, adeguato al mutato costo della vita e che azzeri il contenzioso generatosi con i fatti del ’21[11].

La componente di violenza caratterizza l’affermazione del fascismo, le connivenze delle forze dell’ordine con lo squadrismo sono sfacciate, continue le bastonature inflitte a chi ricusa l’iscrizione alla CISE. Ai primi del 1922 le direzioni delle miniere e della Centrale elettrica annunciano un ulteriore taglio all’organico adducendo a motivo la crisi del mercato delle ligniti[12]. Si effettua così una temporanea serrata (agosto 1922). Segue la riassunzione parziale degli espulsi. Su tremila minatori ne vengono re-impiegati meno della metà, con giornate a due turni e paghe dimezzate. In questo periodo la CISE (6.500 iscritti nell’Aretino) scompare dal panorama sindacale, dopo aver tentato la via dell’autonomia. Il travaso nel sindacalismo fascista, con il segretario Bartoli in testa, è totale. La direzione nazionale del PNF dichiara incompatibile l’appartenenza dei propri iscritti a organizzazioni diverse dalle Corporazioni[13].

Nel maggio 1923, mentre la Mineraria annuncia la chiusura della Centrale elettrica, Bartoli comunica alle Corporazioni la decisione delle assemblee operaie di procedere all’occupazione della Centrale[14]. Interviene il ministero del lavoro in funzione di arbitrato. Sentite le parti si decide di corrispondere la maggiorazione del caroviveri e altri benefit. Il lodo è impugnato dalla Mineraria che ricorre alla Confederazione Generale dell’Industria. Bartoli guida una delegazione di minatori a trattare con la controparte rivendicando aumenti salariali e la definizione delle vecchie pendenze. La tensione è altissima e, se da una parte si minaccia di tagliare i salari in caso di ripristino delle otto ore, dall’altra ci si prepara allo sciopero[15]. Questa prassi sindacale classista non può essere tollerata. Ai severi richiami di Rossoni, si aggiunge la reprimenda di Mussolini in persona[16]. Moniti così autorevoli non paiono però sufficienti a placare gli animi. Così l’agitazione continua. Il 23 agosto si tiene un incontro risolutivo, presenti il prefetto, il direttore della Mineraria, Rossoni e Bartoli. L’accordo, mero azzeramento dei contenziosi pregressi, non chiude però la partita.

La crisi Matteotti (1924), che si inserisce all’epilogo di questa vicenda, sembra paradossalmente aprire per il sindacalismo fascista nuove prospettive per ardite vie d’uscita “a sinistra”, verso il recupero dell’“anima rivoluzionaria” del programma sansepolcrista[17]. Il 16 maggio ‘24 una delegazione di minatori, con Bartoli sempre alla testa, si incontra a Roma, di nuovo con Rossoni e con i massimi dirigenti della Corporazione. La disponibilità della Mineraria a concedere aumenti del 10% sulle paghe del ’21 e invece la ferma richiesta sindacale del 25% sono destinate a non incontrarsi[18]. Davanti all’ennesima trattativa a vuoto la risposta delle maestranze non può che essere lo sciopero. Che viene proclamato per il 4 agosto. L’adesione è totale: in 1900 si astengono dal lavoro. Il tricolore sventola su tutti gli edifici. Il direttore delle miniere respinge qualsiasi dialogo con i lavoratori ed ordina, per ritorsione, di sospendere la somministrazione a credito di generi alimentari alla cooperativa di consumo. A questo punto PNF e governo non avallano più l’intransigenza della Mineraria. L’impopolarità dei padroni, l’eco ormai nazionale della vicenda rischiano addirittura di compromettere quel disegno politico sociale, improntato alla collaborazione di classe, che ispira il movimento fondato da Mussolini[19].

Il sindacato indice un referendum per decidere il da farsi. Su 1113 votanti al referendum 1090 si esprimono per proseguire lo sciopero. Nonostante questo plebiscito la mobilitazione si sfilaccia. Il PNF mantiene una posizione ambigua. “Non vedo che cosa potrebbe portare di più un ulteriore prolungamento dello sciopero”, telegrafa Mussolini al prefetto, e aggiunge: “Prego agire”[20]. La vertenza si chiude l’11 settembre, con il risultato scarso di un 15% di aumento medio sulle paghe del ’21[21]. L’ordine per la ripresa del lavoro è diramato dal partito. Bartoli, deferito al Consiglio nazionale delle corporazioni per indisciplina, è destituito dalla carica[22].

L’azione dei minatori e il ricorso allo sciopero, nelle valutazioni di Roberto Farinacci, sono monito agli industriali a non respingere più la collaborazione di classe[23]. È tempo di risolvere i problemi del sindacato: riconoscimento giuridico, contratti, magistratura economica, arbitrato[24]. Le agitazioni valdarnesi del ‘24 mettono all’ordine del giorno la questione teorica dello “sciopero fascista”. Gran Consiglio e direttorio delle Corporazioni forniranno allora l’interpretazione autentica. Si è trattato di un “atto di guerra” obbligato cui si è fatto ricorso dopo che sono state espletate le altre vie. L’azione ha danneggiato la comunità nazionale, quindi lo sciopero fascista, al contrario dell’omologo ‘socialista’, deve essere considerato un atto eccezionale, non la regola[25].

Nel corpus teorico del sindacalismo fascista confluiscono svariati filoni di pensiero e suggestioni: il sindacalismo rivoluzionario francese di Georges Sorel; il mito di Filippo Corridoni; il corporativismo dannunziano della Carta del Carnaro; il sindacalismo nazionalista di Enrico Corradini e Alfredo Rocco; l’esperienza sindacale interventista, elitaria e fedele al nesso guerra-rivoluzione, che passa dal Comitato Sindacale Italiano alla UIdL[26].


[1] Cfr. ACS, Ministero Industria Lavoro Commercio, CCMI, b. 21, fasc. 4, CRMI Toscana, Verbale adunanza dell’11 gennaio 1919, Cessazione dell’ausiliarietà degli stabilimenti.

[2] Cfr. A. Pepe, Il Sindacato nell’Italia… cit., pp. 44-5.

[3] Cfr. G. Verni, L’usi in provincia di Arezzo, “Volontà”, n. 5/1973.

[4] Cfr. Asca, cg, b. 963, 15.6.3/1921, “Organizzazioni operaie di resistenza. Camera del lavoro”; G. Sacchetti, L’imboscata. Foiano della Chiana, 1921: un episodio di guerriglia sociale, Cortona, Arti Tipografiche Toscane, Cortona, 2000, p. 21.

[5] Gli incidenti del marzo 1921 sono il pretesto per smobilitare: 3.500 minatori licenziati, 1.200 operai delle Ferriere e 400 delle vetrerie, per un totale di oltre 5.000 famiglie prive di sussistenza. Cfr. “La Nazione”, 15 settembre 1921, Relazione sulla disoccupazione in provincia di Arezzo; e ACS, PS, 1921, b. 56A, telegr. prefetto di Arezzo n. 390 del 15/3/1921.

[6] Cfr. A. Nesti, Un patrimonio industriale scomparso… cit., pp. 55-69.

[7] Cfr. F. Cordova, Le origini dei sindacati fascisti (1918-1926), Bari, Laterza, 1974, pp. 36-53; F. Perfetti, Il sindacalismo fascista. I.- Dalle origini alla vigilia dello Stato corporativo (1919-1930), Roma, Bonacci, 1988.

[8] ACS, PS, 1921, b. 92, prefettizia 31/12/1921, “Ordine pubblico nel Valdarno”.

[9] RSM, 1921, p. CXVI.

[10] Cfr. L. Dragoni, Una zona industriale del Valdarno durante il fascismo: i comuni di Cavriglia e di San Giovanni, tesi di laurea, Università degli studi di Firenze, facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1976-‘77, pp. 82 sgg.

[11] Cfr. “Giovinezza”, 25 giugno 1922; F. Cordova, Le origini dei sindacati fascisti…cit., pp. 278-82.

[12] Cfr. “La Nazione”, 17 e 18 maggio 1922.

[13] Cfr. G. Galli, Arezzo e la sua provincia nel regime fascista, 1926-1943, Firenze, Cet 1992, pp. 182-3; ACS, Segreteria Particolare del Duce (SPD), carteggio ordinario (1922-1943), b. 1847, fasc. Bartoli Mario.

[14] Cfr. “Il Giornale di Roma”, 17 maggio 1923, La chiusura della Centrale elettrica di Castelnuovo dei Sabbioni.

[15] ACS, PS, 1923, b. 1, fasc. 3.

[16] “Federazione industria mi segnala atteggiamento sovversivo certo Bartoli che dirigerebbe nel Valdarno corporazioni fasciste stop Voglia informarmi e se necessario richiamare detto signore al linguaggio realtà” (ACS, Gabinetto Finzi, b. 3, telegr. 23/8/1923).

[17] Cfr. F. Perfetti, Il sindacalismo fascista. I.-… cit., pp.72 sgg.

[18] ACS, Presidenza Consiglio Ministri (PCM), Gabinetto, 1924, fasc. n. 3, Arezzo, “Vertenza tra la Società Mineraria del Valdarno e le sue maestranze”.

[19] ACS, PCM, Gabinetto, 1924, fasc. n. 3, Arezzo, “Vertenza…” cit.

[20] ACS, SPD, telegramma 1/9/1924.

[21] Cfr. F. Cordova, Le origini dei sindacati fascisti…cit., pp.278 sgg.; RSM, 1924, p. CXLI; A. Biagioni, 4 agosto 1924: scioperano i minatori di Castelnuovo!, “La Storia del Valdarno”, a. II, n. 13, 15 gennaio 1981.

[22] Cfr. ACS, SPD, carteggio ordinario (1922-1943), b. 1847 cit.

[23] Cfr. R. Farinacci, L’intervento del Partito Fascista nello sciopero dei minatori di Valdarno dimostra come noi non siamo asserviti a nessuna classe e come la nostra azione è esclusivamente al servizio della giustizia e della Società, “Cremona Nuova”, 17 agosto 1924.

[24] Cfr. G. Miceli, Rassegna sindacale. Lo sciopero delle miniere del Valdarno, “Critica Fascista”, 1 settembre 1924.

[25] Cfr. B. Mussolini, Fascismo e Sindacalismo, “Gerarchia”, n. 5 / 1925.

[26] Cfr. E. M. Olivetti, Sindacalismo Nazionale. Dal riconoscimento giuridico dei sindacati allo stato organico corporativo, Milano, Casa editrice Monanni, 1927; S. Rogari, Le origini dell’Unione Italiana del Lavoro, “Nuova Antologia”, 2151, luglio-settembre 1984, pp. 240-265.