Verso un regime (conf)industriale?

I rapporti tra stato, o meglio, gli apparati che lo governano attraverso gli esecutivi e dunque, in senso lato, la politica, e imprenditoria privata non sono mai stati semplici né tantomeno lineari.

Nel dopoguerra e almeno fino agli anni Settanta inoltrati l’industria di stato (IRI) ha rivaleggiato con i colossi privati, creando una casta di boiardi di stato ricca e potente, in un rapporto dialettico ma quasi mai conflittuale. Una complementarietà dunque piuttosto che una concorrenza, resa necessaria dalla peculiare e storica debolezza della borghesia imprenditoriale italiana – a cui già il fascismo aveva tentato di dare risposta con l’assetto corporativo – e permessa da una fase di sviluppo economico.

Nel successivo ciclo economico, caratterizzato in senso recessivo, pur permanendo la necessità di un supporto statale all’economia si è passati ad un intervento indiretto, a forme di sussidiarietà o di regolazione, liquidando l’industria di stato che aveva costi sempre più alti e veniva surclassata dalla concorrenza internazionale (vedi siderurgia). Questo modello – che mentre riduceva l’ingerenza diretta dello stato aumentava proporzionalmente il potere della classe politica – ha retto, tra alti e bassi, nella sostanza fino a qualche tempo fa. Un sistema complesso di reciprocità costituito da finanziamenti, agevolazioni, commesse, appalti, provvedimenti legislativi ad hoc, tangenti, appoggi elettorali, posti nei consigli d’amministrazione ecc.  Un intreccio che nemmeno l’ondata moralizzatrice di tangentopoli è riuscito a sciogliere pur colpendone gli aspetti più eclatanti. Un sistema che ha sancito una sorta di autonomia reale che impone di considerare con cautela il vecchio paradigma dello stato come semplice apparato di classe della borghesia, del politico rispetto all’economia e ai suoi rapporti. Un sistema che sembra reggere anche all’ultimo picco di crisi – quello per intenderci iniziato con l’esplosione della bolla speculativa sui sub-prime negli USA nel 2007.

Un sistema che però oggi sembra vacillare, più che di fronte alla crisi del debito sovrano della Grecia e alla minaccia concreta di una sua estensione ad altri paesi, tra cui l’Italia, rispetto ad una concreta stagnazione produttiva e contrazione dei profitti. Stagnazione e contrazione aggravate dall’inazione e dall’insipienza del governo, ma anche dalla mancanza di un programma di crescita che risponda alle aspettative industriali di un’opposizione frastagliata e indecisa. Sembra infatti rompersi quell’antico patto: a partire dalle ricorrenti e recenti dichiarazioni di Montezemolo su un suo possibile ingresso in politica, siamo arrivati al manifesto confindustriale della Marcegaglia e al proclama di Dalla Valle che sfiduciano con durezza tutta la classe politica. A rafforzare questa interpretazione aggiungiamo il recente accordo tra confindustria e sindacati confederali che cassa di fatto l’articolo 8 del recente decreto finanziario, volenterosamente introdotto da Sacconi sulla derogabilità dalla contrattazione nazionale, dichiarando che le relazioni industriali devono essere regolate esclusivamente dalle parti (industriali e sindacati) e non da leggi dello stato. Un vero e proprio distacco dell’imprenditoria dalla politica o una manfrina pre-elettorale in attesa di partner governativi più affidabili?

In ogni caso l’elemento di novità è importante: siamo di fronte ad un processo di semplificazione del quadro sociale che, anche se fosse transitorio, ha il pregio di mostrare i rapporti di produzione capitalistici nella loro vera e nuda natura, senza gli infingimenti e l’intermediazione della politica. Verità elementare della quale sembra essersi persa la consapevolezza, anche in ambienti che si proclamano rivoluzionari. Tuttavia la crisi della politica si manifesta anche in altri modi e tra chi è sempre stato vittima dei suoi maneggi. C’è, a livello popolare e non solo in Italia, un vero e proprio fenomeno di rigetto della politica, sia dei suoi mezzi che dei suoi rappresentanti. Dagli indignados spagnoli, a quelli greci, a quelli americani, c’è un movimento generalizzato e apartitico di distacco dalla politica che trova qualche riscontro anche nel nostro apatico paese, pur in forme prevalentemente passive o delegate (crescente astensionismo, spostamento di voti su liste di protesta, referendum). Un dato comunque non è da sottovalutare: è una protesta trasversale che investe un po’ tutti i settori sociali e che potrebbe sfociare o in un riassorbimento da parte della politica tradizionale (spesso l’antipolitica si converte nel suo opposto …) o in una delega totale a qualche “uomo della provvidenza” o, infine, ad una progressiva presa di consapevolezza della centralità della questione sociale.

Approfondire questa consapevolezza, trasformarla in coscienza attiva, nella costruzione di nuovi rapporti sociali ed economici, solidali, mutualisti e autogestionari è un compito che dobbiamo assumerci da subito, prima che sia troppo tardi.

 

Guido Barroero