TAXI E FORCONI
Tassisti, autotrasportatori, agricoltori, benzinai, farmacisti, avvocati, in attesa di notai e altre categorie professionali colpite dalle liberalizzazioni montiane, sono scesi, scendono e scenderanno in piazza. I motivi sono i più svariati (dalla liberalizzazione delle licenze all’aumento dei prezzi del carburante), ma tutti riconducibili alle manovre economiche dell’attuale governo.
Non intendo scendere nel merito delle rivendicazioni (più o meno “nobili”o più o meno corporative) delle categorie in lotta, ma solo esprimere qualche considerazione.
La prima è che le agitazioni in corso (o a venire) si sovrappongono e non si affiancano alla endemica conflittualità dei lavoratori dipendenti (anch’essi duramente colpiti dalle manovre). Si sovrappongono come visibilità (duemila tassisti che bloccano una città hanno ben altro impatto mediatico di duemila operai in corteo), non si affiancano nel senso che non esprimono in generale solidarietà sociale – anche se la richiedono – né si propongono di costruirla. L’eccezione può essere la “rivolta siciliana” che tuttavia trova il suo limite nella localizzazione regionale.
La seconda considerazione è la ripulsa della politica che viene espressa. Non si tratta, ovviamente, di un rifiuto di principio di transazioni e rapporti clientelari per affermare le proprie prerogative e interessi categoriali, magari ce ne fossero e funzionassero come in passato… La ripulsa è nei confronti di questo ceto politico dimostratosi incapace di adempiere anche alla più infima delle sue mansioni: la trasmissione e l’esecuzione degli interessi dei propri bacini elettorali in provvedimenti concreti.
La terza è la trasversalità di questi movimenti. Una trasversalità materiale che recide (transitoriamente?) i legami partitici, oscura le convinzioni politiche e i principi. Una materialità che se da un lato unifica sulla base di interessi immediati, dall’altro divide in quanto esprime settorialità e pulsioni categoriali.
La quarta riguarda, più in generale, la rottura del patto o compromesso sociale che, bene o male, la seconda repubblica ha garantito in relativa continuità con la prima. Ci troviamo su un terreno inesplorato, dove al crollo della funzione mediatrice della politica e all’erosione dei blocchi sociali di consenso alle varie organizzazioni politiche non corrisponde non diciamo una potenziale riaggregazione di classe, ma neppure un potenziale nuovo assetto all’interno dello scenario politico-istituzionale. Al massimo un populismo diffuso passibile di derive di destra.
La quinta, infine, e lo abbiamo già scritto in altra occasione sono la natura e la funzione del governo Monti. Non è il governo delle banche, né della finanza. E’ l’unico governo che il capitalismo italiano, nel suo complesso intreccio di interessi, poteva mettere in campo per contrastare gli effetti della crisi. E’ un governo tecnico-politico che agisce su mandato delle classi dominanti, che sgrava il ceto politico della necessità di scelte impopolari e che non ha bisogno di una qualsivoglia “legittimazione popolare”.
Chiudo qui queste scarne considerazioni, scusandomi per la loro schematicità, ma credo sia necessario riflettere su quello che succede al di là delle spettacolarizzazioni e l’emotività.
La situazione infatti è sempre più drammatica e richiederebbe un agire diffuso e condiviso fuori dagli schemi di compatibilità capitalista che – politicamente, sindacalmente, ma anche psicologicamente – hanno sempre condizionato molti, ma anche da molti luoghi comuni spacciati per teorie rivoluzionarie.
Tra questi ultimi vorrei citare la convinzione che sia l’aggravarsi delle condizioni economiche degli sfruttati a determinare necessariamente una presa di coscienza di classe e una conseguente unità. Vediamo che così non è, perché si tende a considerare ineluttabile la propria condizione e non immaginabile un tipo diverso di rapporti sociali. Dunque, tanto più la crisi e le proprie condizioni di vita e di lavoro si aggravano, tanto più si spera in una ripresa del sistema sociale vigente che ce ne cavi fuori…
Ma anche il generico richiamo all’unità di classe trova, sempre più, il suo limite nella destrutturazione dei rapporti di lavoro. Voglio solo citare come esempio quello che ha scritto un compagno nella nostra lista a proposito della questione tassisti: “…va comunque detto che siamo nell’ambito del “popolo delle partite iva” (4 milioni, su una forza lavoro di 20 milioni?), la palude ottimale per mimetizzare i parassiti fra gli sfruttati “. E’ possibile separare il grano dalla crusca? I “buoni” dai “cattivi”? Gli sfruttati dai parassiti? Ritengo di sì, ma non certo con un’analisi delle forme di appropriazione del plusvalore, né con inchieste sociologiche. Si può fare solo se si dà vita ad un progetto di emancipazione sociale ed economica che inizi a concretizzarsi nell’immediato in una rete di realizzazioni autogestionarie e solidali. Una rete che cresca e si espanda sempre più, svincolandosi dalle logiche capitalistiche di mercato e contrapponendovisi radicalmente. Se ancora si può sperare di cambiare le cose rivoluzionando l’esistente facciamolo nel modo giusto. Altrimenti restiamo ai rituali scioperini generali (come quello di USB del prossimo 27) che servono solo a “segnare” una posizione e a far perdere soldi ai lavoratori senza dargli alcuna prospettiva.
Guido Barroero