
Lacrimogeni piovono dal cielo mentre lanciatori di pietre palestinesi si scontrano con le forze di sicurezza israeliane in seguito ad una settimana di proteste contro l'esproprio di terre palestinesi da parte degli Israeliani nel villaggio di Kfar Qaddum, vicino la città settentrionale di Nablus, nella West Bank occupata, 4 luglio 2014. (Foto: AFP-Jaafer Ashtiyeh)
L’articolo che riportiamo, nella nostra traduzione dall’inglese, è ormai del 7 luglio 2014, ma lo proponiamo per l’analisi del ruolo determinante che, com’è ormai noto, i media hanno nel determinare le realtà stesse che vanno a rappresentare: le dichiarazioni e i resoconti di queste ultime ore nei bombardamenti a Gaza non sono che l’ennesimo esempio della funzione politica svolta dalla strutturale distorsione dell’informazione occidentale in merito.
La copertura mediatica occidentale sulla Palestina è parte del problema
di Yazan al-Saadi – Al-Akhbar
Roma, 7 luglio 2014 – Nena News
Mentre la tragedia e un terrore ininterrotto colpiscono l’assediata popolazione palestinese ancora una volta, i media occidentali sono impegnati a produrre e presentare articoli e reportage televisivi sugli eventi in corso. Questi “notiziari” – in mancanza di una terminologia migliore – sono presentati come fattuali e veri, oggettivi e neutrali, non macchiati da impostazioni di carattere personale, emotivo, politico o storico.
In realtà, molti dei media mainstream tradizionali occidentali si pregiano di avere uno standard professionale al momento di produrre e presentare le notizie. Torreggiano dal punto più alto della gerarchia internazionale dell’informazione. Si crede comunemente che le notizie occidentali siano originate attraverso gli standard più alti, elaborate da fatti valutati freddamente, e presentati in maniera presumibilmente moderata presso un pubblico in attesa di essere informato.
Questo non è assolutamente vero.
La copertura mediatica di ciò che sta avvenendo in Palestina in questo momento non è se non un ulteriore esempio in una quasi infinita teoria di esempi a riguardo della Palestina così come di altre società non occidentali, di questo processo.
Notizie d’asporto, sin dall’inizio – La maggior parte dei resoconti dei notiziari occidentali riguardo gli eventi in corso in Palestina cominciano con la data del 12 giugno, giorno in cui i tre coloni israeliani sono scomparsi nell’area C dei territori occupati della West Bank controllata dagli israeliani, riportandola come l’inizio di un nuovo “ciclo di violenza”.
Cominciando da qui, al lettore si dice in pratica che gli eventi precedenti sono inconseguenti o non hanno relazione con l’attualità, o semplicemente che tutto andava bene in Palestina.
Supponete che nuovi resoconti prendano in considerazione l’uccisione di 2 teenager palestinesi e il ferimento di altri 11 da parte di soldati israeliani il 15 maggio. Riprese video mostrano che i due teenager Nadeem Nawara e Mohamed Salameh non erano pericolosi e non erano coinvolti nelle proteste in quel momento. Tuttavia entrambi sono stati uccisi con colpi al petto in due separate situazioni, nello spazio di un’ora. L’incidente è stato riportato e subito dimenticato, per sempre slegato dal contesto più ampio.
Immaginate che, nel caso si estenda il punto d’inizio più oltre e si prenda in considerazione il numero totale delle vittime dall’inizio del 2014, le premesse che sottolineano ogni storia sulla Palestina oggi trasformerebbero ciò che oggi viene presentato in maniera quasi da routine da questi comunicati, fino a renderlo irriconoscibile.
Fino ad ora nel corso delle operazioni militari oggi, almeno 10 palestinesi sono stati uccisi delle forze di sicurezza israeliane nel West Bank e a Gaza. Essi sono: Yousef Abu Zagha, 16; Mahmoud Jihad Mohammed Dudeen, 14; Mustafa Hosni Aslan, 22; Jamil Ali Abed Jabir, 60; Mohammed al-Fasih, 23; Usama al-Hassumi, 25; Ahmed Said Suod Khalid, 27; Atallah Tarifi, 30. Gli altri due, di cui non si conoscono i nomi, sono un undicenne e una donna incinta morta dissanguata sotto il crollo della propria casa dopo un attacco israeliano.
Oltre il numero delle vittime, mentre i media occidentali si concentrano sul rapimento dei tre adolescenti israeliani, nessuno prende in considerazione il rapimento di più di 570 palestinesi dal 12 giugno. Il termine comunemente usato è “arresti” o “rastrellamenti militari”, che immediatamente comportano legittimazione e giustificazione, senza riguardo del fatto che nessuno di quei palestinesi, incluso i minori, aveva niente a che fare con il rapimento.
L’equivalenza del dolore è un altro fattore che emerge dai comunicati dei media occidentali.
Quando si fa riferimento alla sofferenza palestinese, e lo si fa raramente, essa deve essere presentata sempre affianco alla sofferenza israeliana. Questa equivalenza implica che entrambi le parti sono pari, e su un terreno di gioco pianeggiante.
Il punto della questione è che Israele è uno Stato con armi nucleari con un apparato militare e di sicurezza sofisticato, finanziato e supportato da grandi potenze. E’ molto più potente e dispone di pieno dominio nel fare ciò che gli piace senza impunità. Questo dettaglio chiave semplicemente non esiste nella fotografia costruita dai comunicati dei notiziari occidentali.
L’assenza nei comunicati dei notiziari occidentali di questa distinzione estremamente importante, propaga e deriva da quella narrativa distorta della lotta in Palestina sia quella di due popoli che hanno uguali rivendicazioni legittime su quella terra. Ciò non corrisponde alla cronaca storica – in quanto un solo popolo, i palestinesi, sono la popolazione indigena mentre gli altri vi sono giunti come parte di un progetto militarizzato di colonizzazione europea.
Ma molto probabilmente, molta della narrativa fatta dai notiziari occidentali ha a che fare col fatto che Israele sta affrontando una “minaccia esistenziale”. Il lettore oggi può leggere i titoli di questo racconto, in cui Israele eternamente “risponde” al fuoco dei razzi, Israele “teme” costantemente una terza Intifada, Israele è sempre “in lutto” per i propri morti. Le azioni di Israele infine vengono definite “punizioni”, un termine impregnato di rettitudine.
Il rogo di Mohammed Abu Khudair. L’orribile assassinio di Mohammed Abu Khudair, 16 anni, di Gerusalemme est, che fu rapito e bruciato vivo si dice da coloni israeliani, è un’altra rappresentazione dell’impostazione dei media occidentali. Prima dell’assassinio, i comunicati dei media occidentali riguardavano solamente le rivendicazioni per episodi di sangue tra civili e militari israeliani.
Come riportato da Rania Khalek di Electronic Intifada, il fatto che grandi masse di israeliani si riversassero per le strade di Gerusalemme al canto di “Morte agli arabi!” fu occultato o non garantì una copertura sufficiente da parte dei vari notiziari, e ciò vien fatto corrispondere, nell’analisi della Khalek, ad un “odio insabbiato”.
Nessuno dei comunicati mediatici ha riportato dei festeggiamenti per la morte di Abu Khudair da parte degli israeliani sui social media, né essi hanno riportato la diceria o le rivendicazioni da parte della polizia israeliana che Abu Khudair fosse stato ucciso a causa dei suoi orientamenti sessuali o a cause di faide tra clan – entrambe evidenti calunnie.
Ironicamente è stata solo Buzzfeed, un’agenzia non particolarmente grande, a fare un servizio sull’umiliazione e la colpevolizzazione delle vittime da parte degli israeliani, benché corredato da esempi sul lato palestinese.
Da parte sua, il Washington Post non si era neanche preso la briga di classificare Abu Khudair come adolescente palestinese, mentre il New York Times decise di uscire con un titolo che si riferiva ad Israele come “sull’orlo” dopo la “possibile uccisione per vendetta di un giovane arabo”‘, associato ad una foto in prima pagina di un palestinese senza volto che lancia una pietra.
Il titolo e la foto furono cambiati solo dopo l’esplosione di massicce critiche.
Le considerazioni di Judy Rudoren, capo dell’ufficio di Gerusalemme del New York Times, in particolare sono rilevanti, per il fatto che la sua personale copertura del ritratto degli adolescenti israeliani morti ha un tono chiaramente più empatico.
Dalla condivisione di immagini strazianti della madre di uno dei ragazzi israeliani, alla condivisione del video in diretta dei funerali israeliani (ma non del video in diretta delle proteste nella West Bank), alla selezione di citazioni compassionevoli da parte di membri della famiglia del morto e di ufficiali israeliani, ai quali personaggi famosi avevano mandato le proprie condoglianze.
Allo stesso tempo, la Rudoren ci aveva messo grande impegno per notare al funerale di Abu Khudair “giovani mascherati” al suo funerale ( l’unico funerale di cui avesse riportato dal lato palestinese), notando che la folla cantava “Allahu Akbar” (piuttosto che tradurlo con “Dio è grande”), e sparava colpi di mitra in aria.
Le risposte emotivamente cariche non si sono fermate ai media. Mentre molti ufficiali dei governi occidentali esprimevano la propria vicinanza a questi giovani israeliani prima scomparsi, e in seguito, morti, nessuno aveva fatto menzione diretta dei palestinesi, se non per sollecitare la fine di questo “ciclo di violenza”.
Susan Rice, ex ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, e attuale consigliere per la sicurezza nazionale, è un caso classico.
Il 20 giugno scriverà sul suo account Twitter:
“Questa notte tutti i nostri cuori soffrono per i tre studenti israeliani rapiti nel West Bank, uno dei quali è anche un americano”
Il 30 giugno aggiunge:
“Come madre di un ragazzo di 16 anni, posso solo immaginare il dolore terribile che stanno soffrendo le famiglie di Eyal,Gilad e Naftali”
E poi:
“Ho avuto la possibilità di mostrare le mie condoglianze direttamente al mio corrispondente israeliano e amico Yossi Cohen nella sua visita alla Casa Bianca oggi”.
Riguardo ai palestinesi tutto ciò che aveva da dire è stato una serie di tweet il 2 luglio, in un tono che trasuda distanza e protocollo:
“Gli Stati Uniti condannano fortemente l’atroce assassinio di Mohamed Hussein Abu Khudair a Gerusalemme”
“Gli Stati Uniti inviano le proprie condoglianze alla sua famiglia e alla gente di Palestina”
“I responsabili devono essere condotti davanti alla giustizia, gli Stati Uniti stanno seguendo con attenzione le indagini”
“Facciamo appello a tutte le parti coinvolte perché si eviti un’atmosfera di vendetta e punizione”
Un appello a trovare alternative?
Edward Said, defunto intellettuale palestinese, una volta scrisse:
“Nonostante la varietà e le differenze, e per quanto noi proclamiamo il contrario, ciò che i media producono non è né spontaneo né significa mai completamente la “libera notizia”, foto e idee non affiorano semplicemente dalla realtà ai nostri occhi e alle nostre menti, la verità non è direttamente disponibile, non abbiamo una varietà illimitata a nostra disposizione.
Così come accade in tutte le modalità di comunicazione, televisione, radio e giornali rispettano certe regole e convenzioni per comunicare le cose in maniera intelligibile e sono queste, spesso più che la realtà stessa che viene coinvolta, che danno forma al materiale rilasciato dai media“
Nei termini della copertura da parte dei media mainstream occidentale sulla questione palestinese questo si dimostra estremamente vero. Le “regole e convenzioni” di cui parla Said sono guidate dagli interessi e delle politiche degli Stati da cui provengono.
I governi occidentali – e i loro alleati, inclusi una grande maggioranza degli Stati arabi che sono ignobilmente silenti rispetto all’attuale repressione in Palestina – sono solidi alleati di Israele. Le agenzie di stampa all’interno di questi Stati rispecchiano questa situazione, come hanno fatto in passato nei commenti al mondo arabo e nel resto del Sud del globo, sin dall’alba della moderna industria mediatica. Non c’è dubbio che continueranno a farlo anche domani.
Questo è un modello che non terminerà, nonostante il crescente oltraggio espresso dai palestinesi e dei loro alleati, e che può essere chiaramente visto sui social media, nei dibattiti televisivi, e altrove. Se l’opposizione genera effettivamente dei cambiamenti, essi non sono che una cosmesi, e non colpiscono al cuore questa narrativa disfunzionale completamente interna alla copertura mediatica del mainstream occidentale.
Un elemento oggi differente, e che potrebbe forse cambiare tale dinamica, è l’emergere di agenzie di stampa alternative, che non si conformano a quelle “regole e condizioni”.
Dal momento che questi siti – come Electronic Intifada e simili – esistono, sono supportati in maniera attiva, e rendono disponibili ai consumatori di notizie che vogliono conoscere eventi su di un piano che va oltre la narrativa usuale, ciò che viene presentato dai media occidentali potrebbe alla fine essere messo in discussione.
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Fonte: Nena News
Traduzione: L’Internazionale