I veleni di Taranto

Il più grande polo industriale siderurgico a ciclo integrato, tornato nelle cronache nazionali degli ultimi giorni per i provvedimenti della magistratura a seguito del sequestro degli impianti, nasce a Taranto nel 1961 con un investimento iniziale di 372 miliardi di lire a carico dello stato, e si sviluppa con i successivi ampliamenti su di una superficie ampia  15 milioni di metri quadri, pari a tre volte l’estensione della città. L’industrializzazione, arrivata in Italia più tardi che in Europa e sviluppata al nord prima che al sud, induce la politica dell’epoca a promuovere lo sviluppo industriale anche al sud con l’idea che tali investimenti statali avrebbero dato un azione propulsiva allo sviluppo economico complessivo.

Tale idea trovò favorevoli moltissimi parlamentari meridionali, i partiti della sinistra e i sindacati. Varata la legge  634 nell’anno 57, che imponeva alle imprese a partecipazione statale di investire il 40% degli investimenti nel mezzogiorno, partì l’industrializzazione più significativa, quella del settore siderurgico. Venne scelta Taranto per infrastrutture portuali e ferroviarie già in buona parte presenti. Lavorarono con ritmo incessante negli enormi cantieri migliaia di operai edili alla costruzione degli impianti  e già in questa fase si contarono molte vittime sul lavoro dovute per buona parte allo sfruttamento degli operai   e al mancato rispetto delle norme di sicurezza.

Quanto avvenne in quel periodo e quanto  avviene ancor oggi all’ILVA di Taranto, testimonia non solo l’inadeguatezza delle strutture per l’azione preventiva nel campo della salute e della vita dei lavoratori, ma anche il colpevole silenzio dei poteri pubblici e degli enti preposti al controllo.

Una  curiosità poco nota a molti è che il Quarto Centro Siderurgico nazionale fu costruito abusivamente. L’Amministrazione comunale consentì la costruzione con licenze “in bianco” e successivamente in “precario”, non furono mai effettuati controlli ed il Consorzio Asi “prese atto” della nuova destinazione d’uso.

La iniziale produzione di laminati a prezzi contenuti andò a tutto vantaggio delle imprese private del nord Fiat, Tosi, etc., che ebbero modo di approvvigionarsi con grande economia di mercato, poi con la crisi  energetica dei primi anni ‘70 e la perdita di competitività  dei prezzi,  inizia un tormentato periodo di alti e bassi concluso dopo una ristrutturazione degli impianti portata avanti da uno staff di tecnici giapponesi e che si concluse nel 1994 con la vendita al gruppo Riva per 1460 miliardi degli impianti, un prezzo che all’epoca

valeva appena il valore delle aree e non certo quello dell’ infrastruttura degli impianti.

Nei primi anni di vita del siderurgico si può leggere l’insuccesso  di un intervento pubblico poco accorto che sembra,  per giunta, aver bloccato e reso passivo il contesto socio-culturale locale, frenando uno sviluppo economico autonomo. La scarsa legittimazione della classe politica e la sua deresponsabilizzazione favorisce come in tutto il mezzogiorno lo sviluppo di un’imprenditorialità politica, legata a protezioni e vincoli politici più che alle normali regole economiche, la crescita di  una micro imprenditorialità politica che sfrutta e manipola legami familiari, la crescita della criminalità organizzata, specie laddove una tradizione originaria di uso della violenza ha consentito un controllo delle risorse pubbliche ed un condizionamento della classe politica ed ha alimentato vere e proprie forme di modernizzazione criminale.

Tornando alle questioni relative alla sicurezza e igiene ambientale, l’intero comparto produttivo non risulta, inoltre, mai essere stato in regola con le normative succedutesi nel tempo (fin dal DPR 303 del 56 e sino ai decreti più recenti 81/2008 e 152/ 2006). Le vittime sul lavoro  sono impressionanti, oltre 180 le morti bianche, 8.000  gli invalidi e 20.000 i morti di cancro e leucemia, anche fra gli abitanti più e meno prossimi alla fabbrica (1).

Prima della gestione privata di Riva, i controlli sulle emissioni inquinanti in aria in qualche modo venivano effettuate nella seguente maniera: un operatore con appositi binocoli monitorava  la colorazione dei fumi, regolando l’ossigeno in eccesso. Così controllava in maniera diretta la bontà della combustione ed indirettamente limitava lo scarico di  incombusti in atmosfera. Riva naturalmente pensò di risparmiare sul costo del lavoro eliminando tale mansione sugli  oltre 400 camini presenti.

Ulteriore danno perpetrato nel tempo riguarda  gli scarichi a mare dagli impianti di depurazione delle acque di processo.

Per queste ultimi, una normativa varata nel 77 e con validità sino al 1999 (legge Merli) ha addirittura favorito lo smaltimento dei reflui che danneggiava l’ecosistema marino, il tutto perché si ponevano dei limiti agli inquinanti per unità di volume scaricato, ma non si normava la quantità complessiva. La legge risultava pertanto inadeguata a salvaguardare l’ambiente in quanto, non ponendo limiti alle quantità trattate, si sono potuti riversare in mare quantità di cromo (di fatto le portate assomigliavano a quelle di un fiume) tali da rendere necessario periodicamente il dragaggio di fondali profondi più di 10 metri affiche il tratto di mare potesse continuare a funzionare da recettore.

In ultimo, l’autorizzazione integrata ambientale, la prima autorizzazione rilasciata dal Ministero dell’Ambiente  solo nel settembre 2011, dopo un iter di oltre 4 anni, un documento di oltre mille pagine,  si concentra esclusivamente sul monitoraggio in continuo delle diossine e del benzoapirene , sostanze a riconosciuta incidenza tumorale. Niente vien detto rispetto alla sovrapposizione degli effetti dei restanti inquinanti (polveri e micro polveri), frequentemente responsabili del crescente numero di ricoveri ospedalieri per patologie dell’appartato respiratorio (riscontrate anche a enormi distanze dalle sorgenti inquinanti come messo in evidenza dagli studi del CNR ISAC dell’ università di Lecce nell’area jonico-salentina). Un sistema complesso fuori controllo, che continua sostanzialmente a funzionare per mero interesse economico in spregio delle più recenti normative della CE e a volte ancora in deroga alla più vecchia normativa italiana del 1990.

In tale delicata situazione del territorio, l’Arpa sino al 2008 non aveva mai effettuato alcuna  rilevazione ambientale (rif. Dichiarazioni del Direttore Giorgio Assennato), nonostante la presenza del sito Ilva e di altri impianti di particolare incidenza ambientale tanto che l’intera area è perimetrata quale S.I.N. (sito di interesse nazionale).

In più sull’intero  territorio pugliese che conta quale altro sito inquinante il polo chimico ed energetico di Brindisi, manca un  registro dei tumori (nonostante i finanziamenti regionali per rendere attivo il registro dei tumori dell’area jonico salentina, responsabile Giorgio Assennato) che è rilevazione strettamente necessaria per correlare i dati di morbilità e mortalità rispetto alle sorgenti inquinanti.

 

Insomma, tale intervento vuole evidenziare come concause della grave situazione attuale:

  1. la scarsa lungimiranza delle classi dirigenti preposte all’epoca alla individuazione e realizzazione di un polo presunto strategico per l’economia del paese, la cui elefantiaca dimensione ne ha decretato la fine sin dal principio, come tante altre cattedrali nel deserto elevate nel Sud;
  2. il colpevole spregio di qualsiasi attenzione alla salute dei lavoratori e dei cittadini, pur in presenza di una legislazione valida e messa in atto contemporaneamente in altre strutture pubbliche ma con più antica tradizione di consapevolezza operaia e tecnica come ad es, le ferrovie dello stato ;
  3. il ricatto operato nei confronti di una popolazione assetata di lavoro e di tradizione ovviamente più mezzadrile che operaia da officine, nella quale peraltro molto ha giocato una certa mentalità familista e a volte individualista;
  4. la cessione in bianco da parte dello Stato ad un profitto privato (secondo il criminale progressivo processo di dismissione e privatizzazione del patrimonio e dunque del Welfare iniziato negli anni 80) ,  del destino di un polo produttivo su cui non si erano investiti solo ingenti capitali pubblici, ma le speranze di uno sviluppo economico meridionale giocato sulla pelle del popolo.

 

E’ per questo che non si può pensare ad una reversibilità che non valuti il peso di tali colpevolezze.

 

Roberto Dammicco

 

 

(1)   Ispettorato Provinciale del Lavoro di Taranto, Materiale Centro Studi CGIL Taranto.

 

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Altri Materiali:

 

 

 

le parole di Angeletti (Segretario UIL) dette oggi a Taranto
dal palco: “Noi non possiamo accettare la chiusura dell-lva per
nessuna ragione e per nessuna motivazione”
(intervento registrato dal
Tg3 ore 14 2/8/2012).

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